TEODICEA (1) |
Il problema del male è solubile |
Tutta la nostra ricerca svolta finora in campo scientifico, inglobata nei nostri precedenti articoli contenenti le riflessioni filosofiche sulla fisica, la chimica e la biologia evoluzionistica, forse ci permette ora di rivisitare in maniera significativa la cosiddetta problematica di “teodicea”, ossia il rapporto fra Dio e il fatto del male e della sofferenza (d’ora in poi abbreviato con M/S): vero male è infatti ciò che causa sofferenza, sia che si tratti del male morale (il male inferto intenzionalmente e malvagiamente dall’uomo), sia che si tratti del male subìto (il male naturale o fisico, come la malattia).
Una catastrofe naturale, come ad esempio un’inondazione, è male solo perché arreca sofferenza e produce danni; mentre l’esplosione di una supernova dove non c’è vita non potrà certo essere considerata un male. Essa distruggerà magari strutture fisiche di proporzioni gigantesche, neppure paragonabili ad una alluvione, ma non arrecherà la minima sofferenza ad esseri sensibili; anzi, in previsione futura ed in termini evolutivi, può addirittura essere considerata un bene, in quanto la supernova sintetizza prima, e sparge poi con l’esplosione, tutti i nuclei degli elementi chimici di cui poi saranno composti i futuri pianeti coi loro eventuali esseri viventi: è la prima fase incipiente della eventuale posteriore biosfera. M/S si hanno solo con la capacità biologica di soffrire, con esseri capaci di provare sensazioni, quindi con la formazione, la crescita e la progressiva complessità del sistema nervoso centrale, anche se non siamo in grado di precisare esattamente quando e quale sia stata la prima fase evolutiva in cui un essere vivente sia stato capace di soffrire. Vogliamo tratteggiare adesso una piccola storia del problema. Per ora ci muoviamo in un quadro antico e medievale, comunque anteriore al 1800/1850. Ci situiamo prima del 1800, quando era ancora in auge il vecchio e classico concetto metafisico di Dio: onnipotente, eterno (senza tempo), immutabile (senza divenire), onnisciente (compreso il futuro), impassibile, ecc., prima che tale concetto naufraghi appunto con l’idealismo tedesco (Schelling, Hegel, nel cui ambito Dio viene pensato nel divenire, e in Gesù può soffrire ed affrontare la morte vincendola). E siamo prima del 1850, cioè in un quadro in cui è completamente assente l’evoluzionismo; ci troviamo ancora nella fase creazionista (in senso biologico), quella in cui il Dio creatore ha creato direttamente tutti gli esseri, tutte le specie, tutti i prodotti finiti: e li ha creati tutti in contemporanea all’incirca 4000/5000 anni prima di Cristo, senza derivazione filogenetica gli uni dagli altri in un sistema “libero” partito almeno 12/13 miliardi di anni fa. In tale ambito, che l’uomo sia così come è, ne è comunque responsabile direttamente Dio! Il dilemma antico. Il dilemma classico si può così formulare: 1) Per definizione Dio è moralmente perfetto (bontà suprema) ed onnipotente/onnisciente. 2) Un essere onnipotente-onnisciente potrebbe impedire qualsiasi M/S, solo che lo volesse. 3) Un essere moralmente perfetto cercherebbe di impedire ogni M/S. 4) Esiste il male-sofferenza. Da 1 a 4 ne consegue: o Dio non esiste, oppure bisogna ricalibrare tutto il discorso con la revisione degli attributi divini. Dato che evangelicamente e cristianamente non si possono toccare la bontà e l’amore di Dio, gli unici restanti attributi che possono essere rivisti sono l’onnipotenza-onniscienza o la comprensibilità-conoscibilità di Dio. Non si tratta di spiegare le singole e concrete esperienze del soffrire, e neppure il perché esse siano distribuite in modo arbitrario (perché è toccato a me e non a te!); ma si tratta del tentativo di spiegare la presenza in quanto tale di M/S e, se vogliamo, la sua enorme diffusione. Perché il Dio onnipotente e moralmente perfetto ha creato un mondo nel quale sono presenti ed attivi fattori che generano sofferenza, e perché egli non li blocca, o non li ha bloccati sin dall’inizio? Molti però contestano le teodicea teoretica ed argomentativa sostenendo che la teodicea può essere solo pratica: essa consiste cioè nel cogliere la sofferenza entro la prospettiva di coloro che la subiscono (vittime), e nel dare il proprio contributo in vista di un possibile superamento delle esperienze concrete di dolore e di un contenimento pratico della sofferenza stessa. Il loro slogan è: non si può spiegare il male, ma solo combatterlo! Ma la teodicea pratica non esclude quella teorica. Non è giusto screditare la teodicea teoretica con un atteggiamento diffamatorio verso ogni confronto di tipo argomentativo, accusando la speculazione di cinismo. Non è vero che il confronto argomentante possa e debba escludere un coinvolgimento esistenziale, come non è vero che le considerazioni teoriche debbano essere necessariamente fredde, disincantate, prive di emozioni. Anzi spesso chi affronta il problema teorico è colui che è stato toccato o scottato più o meno pesantemente dalla sofferenza, e sta lottando contro ogni tipo di M/S. È invece addirittura un atteggiamento irresponsabile prendersi una vacanza troppo lunga dalla teodicea. Il falso mistero. La cosiddetta “reductio in mysterium” (riduzione al mistero) è la posizione di coloro che sostengono l’insolubilità teorica del problema di teodicea e l’inevitabile fallimento di tutti i tentativi prodotti in tale direzione. Non solo, ma si rifugiano nella misteriosità di Dio, nelle sue vie inesplicabili, nei suoi fini imperscrutabili. Molti teologi sono precipitati in questa deriva, tra cui H.U. Balthasar, H.Küng, K.Rahner, che dice: “L’incomprensibilità della sofferenza è un frammento dell’incomprensibilità di Dio” (citato in A.Kreiner, “Dio nel dolore”, Queriniana 2000, Btc 113, p. 41, n.3; è il bel testo che ci accompagna in tutta questa prima parte del nostro lavoro). Per salvaguardare sia l’onnipotenza sia la bontà di Dio, altrimenti inconciliabili, come ha messo bene in evidenza H.Jonas, se ne sacrifica la comprensibilità o la conoscibilità. Poi però si scrivono trattati di migliaia di pagine sulla Trinità, che di per sé non è meno afferrabile-comprensibile della teodicea. Poi però si esalta la teologia fondamentale come rendiconto della propria speranza, come giustificazione razionale della fede; ma quando si tocca la teodicea, si svincola rifugiandosi nell’ineffabilità di Dio, pur continuando a scrivere migliaia di pagine sulla creazione (e il peccato originale). Il problema è insolubile solo se si vuol salvare a tutti i costi l’onnipotenza classica; altrimenti è invece relativamente risolvibile, o almeno si possono delineare delle linee significative di comprensione. Per la teodicea ci si rifà in genere al libro di Giobbe, la cui intenzione di fondo non pare sia quella di screditare la protesta del protagonista. Noi vogliamo appunto prolungare la protesta di Giobbe, lamentando il fatto che la rivelazione biblica non offra una risposta (chiara) al problema. Essa contiene invece tutta una serie di possibili risposte, tra loro non armonizzabili. E nessuna di esse può essere considerata come la risposta biblica. Gli scritti biblici, nella loro evoluzione, ci offrono una spiegazione di M/S come pena per i peccati dei singoli, del popolo o degli antenati, ma anche una critica di simili rappresentazioni. La Bibbia contiene il mito di Satana ed offre versioni mitologiche simili come l’espiazione, pena, riscatto e castigo; ma anche la loro demitizzazione-interpretazione, pur con tutta la buona volontà, non sembra portare da nessuna parte. C’è stata una rivelazione vetero e neo-testamentaria, è stata rivelata la Trinità (prescindiamo dal problema se la Trinità in senso formale trovi posto nel N.T. o non sia piuttosto una rielaborazione della dogmatica posteriore), ma non qualcosa di significativo e sensato circa la teodicea. È ben strana (oltre che paternalistica) l'idea che Dio disponga di ragioni che non intende a noi svelare: la rivelazione di queste ragioni, relative al fatto di non aver impedito o di non impedire il M/S, sarebbero state immensamente più gradite di tutta l’innumerevole serie di leggi e precetti contenuti soprattutto nell’A.T. Una rivelazione, degna di tale nome, non può non contenere quasi nulla al riguardo. E non si venga a dire che si tratterebbe di una sensibilità solo moderna, perché la formulazione classica del problema di teodicea è già di Epicuro, secondo cui Dio (1) intende eliminare il male ma non può, oppure (2) lo può eliminare ma non vuole, oppure (3) né può né vuole eliminarlo, o (4) lo può eliminare e pure lo vuole. Nel primo caso (vuole ma non può) Dio non sarebbe onnipotente, nel secondo (può ma non vuole) non sarebbe buono, cioè moralmente perfetto, nel terzo (né può né vuole) non sarebbe né l’uno né l’altro, mentre il quarto caso è chiaramente contraddetto dall’esperienza. A prescindere dal fatto che lo voglia o no, che forse lo vorrebbe, che comunque partecipa al dolore del mondo nel senso che le sofferenze degli uomini sono le sofferenze di Dio, noi optiamo per il primo caso, che cioè “Dio non può”: vedremo in seguito come, perché e in che senso. Il dualismo radicale. Nella storia del cristianesimo i tentativi di risolvere in modo dualistico il problema di teodicea sono sempre stati considerati eretici. La confessione di fede monoteistica in un Dio creatore lasciava un certo margine alla credenza in forze e potenze malvage, non però alla fede nell’esistenza di un essere trascendente, della stessa origine e della stessa potenza di quel Dio. La presenza di correnti dualistiche nella periferia dell’ortodossia cristiana sostanzialmente si spiega con l’integrazione di motivi extra-biblici ed extra-cristiani. Nel dualismo radicale infatti troviamo sempre contrapposti due principi con la stessa potenza L’assunzione di due entità non onnipotenti ma di eguale potere, che perseguirebbero intenzioni per definizione tra loro concorrenti, di per sé non sarebbe contraddittoria. A contraddirla sta però l’esperienza di tutta una serie di eventi che in natura si succedono con relativa costanza. Il male naturale, ad esempio un tumore polmonare, trova una sua possibile spiegazione in certi fattori costanti della natura, in questo caso, supponiamo, per l’assunzione prolungata di tabacco. Non di rado proprio l’ignoranza delle cause naturali ha indotto gli uomini a ricorrere a potenze personali ostili, o alla sensazione di essere come esposti ad un potere nemico degli uomini e della vita. Il misconoscere le cause naturali è una delle fonti precipue della credenza in cause d’ordine soprannaturale. Ma se dietro gli eventi si muovessero davvero dei principi trascendenti ostili, la natura non seguirebbe quel corso che tutto sommato ci attendiamo sia relativamente omogeneo. Non è certo agevole per il dualismo radicale spiegare questa relativa omogeneità, regolarità e costanza degli eventi naturali. Non è facile nemmeno per il dualismo mitigato (ad esempio Satana, che tratteremo nel prossimo numero), né per le visioni mitologiche in genere. La scienza ha sferrato un attacco devastante alla mitologia (non alla fede, e neppure al mito antico correttamente interpretato nel suo genere letterario): per cui è da irresponsabili riproporre oggi la fede nelle categorie e nel linguaggio della mitologia. Mauro Pedrazzoli (continua) |