EUTANASIA
La Boulangerie Acacias
La Boulangerie des Acacias è un relitto, sopravvissuto al naufragio dell’arredo commerciale anni settanta.
Sta in rue des Acacias, triste e trafficato confine tra Carouge (città “modello” piantata dai Savoia sulle sponde dell’Arve, a fare lo sberleffo a quei calvinisti dei ginevrini, con i suoi bistrò ed i suoi teatri, un po’ Sodoma e Gomorra per inconfessabili pruriti) e la zona industriale del porto-franco di Ginevra (nobilitata dalla fabbrica Rolex).

In corrispondenza della fermata dell’autobus, apre la sua porta su uno squallido arredamento di fòrmica scolorita, in cui troneggiano due vetrinette (una per il “dolce” ed una per il “salato”), dietro le quali si erge la rastrelliera delle baguettes.

In un angolo, equipaggiato per colazioni senza pretese, sta la macchina a pressione per il caffè - una Saema -, vestigia di antiche frequentazioni di emigranti italiani, primi colonizzatori del 
quartiere.

Dietro al banco si alternano due cassiere, scartate dal casting de La famiglia Adams. Una è secca secca, con la faccia che ricorda il crollo di una diga; l’altra è così grossa che quando si siede ha bisogno della panca. Si muove con fatica, e quando le chiedo un’aranciata insieme al panino, mi fa una smorfia come se le facessi un dispetto (mica ce l’ho messa io la lattina all’angolo opposto della vetrinetta dei “salati”!).

Ci vado dopo la piscina, perché a quell’ora (mangiare un panino alle due del pomeriggio è in- concepibile per uno svizzero!) ti lasciano ancora sedere.

E poi c’è il giornale, La Tribune de Genève, che se non lo leggo lì è inutile che lo comperi, tanto tempo non ne ho, e resto solo con le notizie della radio del mattino.

Naturalmente altri avventori non ce n’è quasi; qualche amica delle due commesse, che viene a prendere un caffè mentre racconta le compere del mattino.

O qualche altro garagista come me, ritardato da un cliente pignolo o dalla telefonata di un rappresentante.

Così non c’è il brusio dei bar italiani, e si può leggere in pace, o origliare qualche conversazione, se merita.

Non merita, di solito.

E non meritava neanche quella volta. Sebbene fosse un uomo, amico della commessa secca secca. Sulla quarantina, direi, ma mal portati, i capelli ondulati e mal pettinati, bisognosi di uno shampo, giacca sui jeans, senza cravatta.

Di quelli che hanno l’aria di avere tempo da sprecare; nessuna precipitazione nei gesti, lunghe pause tra una frase e l’altra.

Aveva un appuntamento in zona ed era venuto con congruo anticipo, approfittando della conoscenza, per mangiare un boccone lì.

Era seduto al tavolo da almeno due ore e mezza: per qualche panino, un’acqua minerale ed un caffè! Di sicuro un impiegato di qualche amministrazione, magari di quelli che per mettere un sigillo ad un contatore stanno in giro un intero pomeriggio...

Ha chiesto un secondo caffè («Tanto ho tempo...») e la commessa secca secca, giusto per riempire un po’ il silenzio, gli ha chiesto qualcosa del tipo «Da chi vai questa volta?».

Non ricordo le frasi precise, ma da quel momento non ho più potuto continuare la lettura del giornale.

L’uomo aveva un appuntamento con la morte. Non la sua, ma quella di un altro - o di un’altra - che voleva essere aiutato a morire. Come? Non so i particolari, credo abbia parlato di una puntura, ma erano appena allusioni.

Nessun accenno di emozione nella voce; certo non era un assassino da film giallo.

Probabilmente solo un volontario di Exit Suisse, l’associazione cui si rivolgono i malati senza speranza per porre fine, con la morte, alle proprie sofferenze.

In Svizzera l’eutanasia passiva non è punibile, a condizione che l’assistenza al suicidio non abbia luogo in un istituto pubblico - ospedale, cronicario o ricovero per anziani - e che sia praticata da personale medico o para-medico.

Lì per lì sono rimasto senza fiato.

Per esperienza vissuta sono contrario all’accanimento terapeutico, ma non riesco ad immaginare cosa pensa uno a cui telefonano per dirgli di preparare la siringa e venire ad un’ora precisa ad un indirizzo preciso (terzo piano, scala C) per farla finita.

In una sala di convegno (il tema ha sempre catturato la mia attenzione) gli argomenti pro e contro hanno il loro spessore, ma in una corsia d’ospedale, accanto al rantolo del malato, o in una boulangerie, accanto al caffè dell’assistente-suicida, l’abisso dell’anima ricorda che non basta firmare il compromesso accettabile da tutti.

Occorre continuare a vigilare e discernere.

Da qualunque parte ci troveremo, nel letto o accanto, dentro o fuori la legge, con o senza camice, lo Spirito ci illumini alla ricerca della dignità dell’uomo, prima che dell’affermazione dei nostri princìpi.

Stefano Casadio 

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