MEMORIA
Una fede ardua e coraggiosa
Nel secondo anniversario della morte di don Alberto Prunas Tola, lo ricordiamo attraverso questa testimonianza. 

Molti di voi avranno sentito da Alberto il racconto della prima intuizione di una chiamata che sarebbe maturata negli anni successivi sino alla scelta definitiva di essere prete tra gli uomini. È 
il ricordo di una sera di plenilunio, durante gli anni bui della guerra, che lui stava a suo modo combattendo come volontario in un ospedale dell’Ordine di Malta dove, diceva, «curavamo tutti: partigiani, tedeschi, repubblicani di Salò, disertori». Scelta, questa, che gli era un po’ costata perché, diceva, gli sarebbe piaciuto fare il partigiano, e che era però già il segno di una volontà di pace e di amore tra gli uomini al di là e al di sopra di una guerra, sia pure giusta, ma comunque fonte di odio e di dolore.

Ebbene, in quella sera di plenilunio Alberto visse una esperienza spirituale che avrebbe segnato in modo irrevocabile la sua vita e la sua fede cristiana. Vide nella luce della luna tre corpi l’uno accanto all’altro. Erano i corpi di tre nemici: un partigiano, un tedesco e un fascista, unificati e pacificati dalla morte. Allora intuì che quello voleva che fosse il senso della sua vita: fare unità d’amore tra gli uomini, mettere se stesso a servizio di Dio perché gli uomini, ogni uomo, riuscisse a comprendere la chiamata all’amore che è il disegno di Dio.

Questo episodio è emblematico di una vocazione alla fede che sarebbe stata sempre profondamente segnata dal senso della drammaticità dell’esistenza e insieme dalla certezza che Dio ci ama tutti in modo personale e che ci vuole strumenti di amore e di comunione.

Chi ha conosciuto Alberto sa che in lui si armonizzavano sia un abbandono, quasi una resa, alla «promessa di Dio sospesa sul mondo», termine a lui molto caro, e sia una visione drammatica della storia e dell’esistenza dell’uomo.Il grande masso di Quincinetto sull’autostrada Torino-Aosta, spaccato da una lunga fessura, di cui parlava spesso e che mostrava agli amici ogni volta che passava di lì, rappresentava simbolicamente il modo con cui Alberto leggeva ogni realtà: la natura, la storia, i rapporti tra le persone, anche le amicizie più grandi.

Questa lettura era maturata sicuramente negli anni della guerra quando, ancora giovanissimo, si era trovato davanti alla tragedia della morte di tanti giovani, all’odio fratricida, alla impossibilità di comunicare tra uomini. Le stessa lettura era emersa dall’esperienza lunga e dolorosa della sua malattia, dall’incontro, negli anni dell’esaurimento, con una natura ferita e spezzata, dal non senso e dall’assurdo di una vita giovane, piena di progetti, paralizzata. Il risultato di quegli anni è la consapevolezza di non potersi salvare da solo, l’emergere dall’oscurità più totale di un sentimento di abbandono fiduciale alla parola di salvezza cui si aggrappava. Questo gli faceva spesso dire che la fede è chiaroscurale, è balbettare, e nasce dal riconoscimento della nostra povertà. Essa è il filo d’acciaio cui restare aggrappati attendendo, con una preghiera di supplica che sovente era anche soltanto un mettersi in ginocchio.

Raccontava che negli anni della malattia, quando pensava che non sarebbe più guarito, quando non riusciva più neppure a celebrare l’eucarestia, ripeteva incessantemente qualche piccola parola di abbandono. Preghiera di supplica: il mettersi in ginocchio ogni mattina; preghiera di abbandono protratta quotidianamente con qualche breve parola che rompe l’oscurità della sofferenza, della paura, dell’opacità della natura per attingere alla speranza della salvezza che ci sarà donata.

Questa esperienza era sfociata in una visione della vita e dell’uomo letta in chiave di morte e resurrezione. La profondità del suo credere in Gesù Cristo era segnata in modo radicale dalla presenza non soltanto della croce, come amava dire, ma del Crocifisso. Trovava conforto nelle parole di Gesù sulla croce «Dio mio...» perché attraverso queste leggeva in radice la storia umana che in altro modo gli appariva assurda e incomprensibile. Non accettava l’assurdo, ma si sforzava continuamente di interpretarlo attraverso la filigrana del mistero di un Dio che si fa carne e muore su una croce gridando la sua paura ma insieme il suo abbandono al Padre. Soltanto un Dio fatto uomo, che per amore soffre sino in fondo il dolore e l’abiezione, può riscattarci dal male che segna di sé ogni realtà.

Diceva sovente che non avrebbe più potuto credere nell’amicizia, in cui invece credeva profondamente, se avesse smesso di credere nella parola di Gesù, nella sua fedeltà all’uomo.Fede e amicizia erano per lui indissolubilmente legati. L’esperienza autentica dell’amicizia, della fedeltà dell’amico attingeva la sua possibilità e la sua certezza nell’amicizia fedele di Dio per l’uomo, per ogni uomo. Il Dio di Gesù Cristo, il Dio che ha il volto dell’uomo era la pietra angolare su cui era possibile fondare un amore umano capace di sfidare il nostro limite di peccato.

La sua fede non era mai posseduta, mai sventolata come una bandiera, mai trionfalistica; la certezza e la forza del suo credere rinascevano ogni giorno. Soleva dire: «ogni mattina mi sveglio ateo e allora mi metto in ginocchio». Una fede tanto più ferma quanto più attraversata dalla sofferenza e dal travaglio di un cuore di carne, di un cuore lacerato dal «terribile travaglio del mondo». «La fede non è visione (evidenza), ma creduta con fermezza per grazia».
Una fede nutrita di speranza radicata in una visione della storia scevra da falsi ottimismi: lui non era un ottimista, anche se era una persona profondamente serena e spesso allegra, ma alimentava la speranza del regno, sia nella sua incessante lotta per consolare il dolore e per medicare le ferite degli uomini in cui consumava ogni sua energia, sia nel fare continua memoria della promessa di Gesù «non temete, io ho vinto il mondo».

L’intuizione poetica, lo sguardo sapienziale erano l’approccio nella ricerca del senso dell’umano travaglio, nel cammino chiaroscurale in una fede «bella e difficile». Lo affascinava questa arduità della sequela Christi; anzi, il coraggio che ogni scelta di fede esige era per lui virtù necessaria per poter seguire il Signore. La fede era ricerca, sempre da ricominciare; una fatica quotidiana che riempie il cuore e la vita, su cui giocare tutto se stesso.

Amava le ricerche dei teologi; soprattutto era affascinato dai tentativi coraggiosi di alcuni che osavano addentrarsi su cammini nuovi. Sovente si entusiasmava per un’ipotesi ardita che gli sembrava cogliesse con maggiore profondità qualche barlume del mistero di Dio. Pur non essendo teologo, leggeva di teologia, se ne nutriva; questo faceva parte del suo spirito inquieto e vagabondo, del suo cercare sempre, del suo coraggio che lo spingeva a mettere a rischio la sua stessa fede per poterla ritrovare ad un maggior livello di profondità. Così comprava libri di teologia in continuazione, spesso non li leggeva che in piccola parte, altre volte si innamorava di uno di essi e allora ne parlava con tutti e lo regalava agli amici più cari. Colpiva comunque il suo desiderio assoluto e impellente di cercare ancora oltre.

Probabilmente erano questa sua sincerità di cuore, questa autentica volontà di verità insieme alla sua straordinaria umanità che lo facevano essere compagno di strada e maestro di tanti anche molto lontani dal suo credo cristiano.

Che cosa resta di questa sua lezione testimoniale?

Il coraggio di vivere una fede «bella e difficile» che è il significato ultimo e unico della nostra vita, attraverso la quale leggere la realtà per continuare a sperare e a lottare.

Una fede in cammino, che si mette a rischio perché fondata sul desiderio della verità. Alla domanda: «come vorrebbe essere ricordato?», la sua risposta era stata: «come una persona che ha molto cercato nella vita...».

Una preghiera che nasce nella nostra stessa carne, richiesta incessante di salvezza che non possiamo darci da soli e che si traduce in una carità inesauribile e disarmata.

Una fede fondata sulla speranza, che supera tutte le delusioni, che attraversa ogni dolore che piaga il nostro cuore di carne, sulla promessa che viene da un Dio fatto carne che ha testimoniato con la vita e con la morte di essere credibile.

Una fede che si è manifestata in compassione e tenerezza per ogni uomo, soprattutto per quell’umanità più dolente e più ferita cui dedicava il suo cuore e il suo tempo. Non un amare l’uomo per amore di Dio, ma un incontrare il Dio di Gesù Cristo che ha il volto dell’uomo immergendosi nella condizione di ciascuno con cuore compassionevole.

Carla Fantino
 

[ Indice ] [ Sommario ] [ Archivio ] [ Pagina principale ]