RIFLESSIONI |
È facile dire: "non siamo razzisti!" |
Sono nato a Torino, da famiglia piemontese. Nel corso della mia vita ho sentito parlare e parlato spesso di razzismo. I razzisti – secondo quanto avevo imparato – erano quelli che non sopportavano i negri. Erano dunque persone lontane, perché fra noi non c’erano negri: i razzisti stavano negli Usa e in Sudafrica, perché era là che i bianchi non sopportavano i negri. Era dunque facile non essere razzisti. Avevo sentito parlare –è vero – di fenomeni d’insofferenza. Al mio paese, in campagna, i giovani facevano ancora a botte con i giovani del paese vicino, se questi venivano alle feste per ballare con le ragazze del posto. E in città avevo sentito parlare male di quelli di Cuneo, che venivano descritti come persone con un gozzo grande e un cervello piccolo. I cittadini si ritenevano superiori ai campagnìn, ai baròt, e tutti costoro insieme (sempre Piemontesi) si ritenevano superiori ai Veneti e in genere agli Italiàn (gente proveniente dai territori a sud del Po). Ma questo veniva definito "campanilismo", e tutto si fermava lì. Una vera insofferenza diffusa si manifestò all’arrivo in massa degli immigrati meridionali: per la prima volta si usò – da parte di alcuni – il termine "razzismo" per definire un atteggiamento nostrano. Che cosa era successo? All’origine, la paura. Prima delle grandi migrazioni dal Sud, i Piemontesi convivevano a Torino con Toscani, Campani, Siciliani, Veneti... senza troppi problemi. C’era un po’ di bonaria ironia reciproca, e tutto finiva lì. Anche al mio paese (in campagna) i Veneti profughi dal Polesine erano stati ben accolti, aiutati e integrati (recentemente è successa la stessa cosa con dei profughi bosniaci e con qualche Maghrebino): erano pochi, e non ci si fece molto caso. Erano pochi. Forse per questo motivo non si scatenò una forte insofferenza. Fu molto diverso quando arrivarono dal Sud interi treni al giorno di immigrati. Erano alla disperata ricerca di lavoro, erano sradicati dalla loro terra, spesso avevano anche già venduto la casa natia, avevano pochi soldi e non sapevano dove andare: c’erano tutti gli elementi perché se ne avesse pietà. Ma erano tanti, sempre di più. Per questo, probabilmente, i Torinesi si sentirono come assediati: e si arroccarono in difesa; i nuovi arrivati si arroccarono a loro volta in difesa, in gruppi regionali. Non ci fu comprensione e scambio interculturale, se non fra poche persone e con molta fatica. Ci furono isolamento e ostilità reciproci. In verità i Torinesi non si richiamavano al concetto di razza quando si ritenevano superiori ai nuovi arrivati: essi però (parlandone in generale) utilizzarono tutti gli altri criteri possibili per alimentare il proprio senso di superiorità: industriosità, intelligenza, onestà, gentilezza, civiltà, bellezza... Ci fu chi (piemontese) sfruttò i nuovi arrivati con affitti esorbitanti, vendendo loro la roba a prezzo maggiorato, organizzando nelle preesistenti organizzazioni criminali i (pochi) delinquenti o sbandati che erano arrivati da poco. Alcuni nuovi arrivati portarono con sé nuove organizzazioni delinquenziali. Non mi addentro nella descrizione dello sfruttamento legale, per mezzo del lavoro in fabbrica. L’integrazione venne molto lentamente, a prezzo di grandi sacrifici personali e comuni. Chi, ad esempio, ha fatto un matrimonio "misto" ha dovuto spesso sopportare difficoltà e incomprensioni nella propria famiglia. A distanza di molti anni l’integrazione non si è ancora realizzata del tutto, e molti "indigeni" in cuor loro non si sono ancora rassegnati all’arrivo dei "meridionali". Ho raccontato questo perché ricordare è utile, in particolare ora che è iniziata una migrazione ben più imponente e duratura, che pone a noi "indigeni" (ormai Piemontesi e Italiani mescolati) problemi simili a quelli di quarant’anni fa, ma più coinvolgenti ancora. C’è un qualche serio motivo che ci può spingere a diventare razzisti, o che tali ci fa riconoscere? Secondo me ce ne sono parecchi; essi però si riassumono tutti in una parola: la paura. Ogni individuo che sia diverso da me mi induce attenzione e curiosità. In che cosa si può essere diversi? Per sesso, per età, per lingua, per colore, per abitudini... Nel caso però che gli individui diversi siano tanti, e tutti insieme, questa reazione si trasforma prima in fastidio, poi in paura. Credo che ciò derivi da una valutazione istintiva del nuovo rapporto di forza che l’evento crea. Se l’individuo diverso è uno o sono pochi, sento di poterlo controllare o dominare. Se gli individui sono tanti e in gruppo, temo che io e il mio gruppo di appartenenza saremo controllati o dominati. Ci sentiamo cioè minacciati nei criteri acquisiti per la nostra vita, nel dominio esclusivo del nostro territorio, nelle nostre abitudini, nei nostri atteggiamenti culturali, che devono essere rimessi a fuoco. Sentiamo che l’unicità della nostra religione (che siamo credenti o laici) e della nostra morale è messa in discussione. Più fortemente di tutto poi percepiamo la concorrenza nel campo del lavoro. Sentiamo che i nuovi venuti vogliono usurpare il nostro posto, le nostre chances, le nostre risorse. Non ci tranquillizza il fatto che si accontentino di mansioni scarsamente qualificate, che spesso non ricerchiamo né per noi né per i nostri figli. Essi – gli Ma quando si fermeranno? Mai, temiamo. Ma perché dunque non se ne sono rimasti nei loro paesi? Perché non ci tornano? Perché non ci tassiamo un po’ tutti perché se ne rimangano là, e non vengano a dar fastidio a noi qua? Il razzismo è dentro di noi. Questo percorso mentale che ho appena descritto non è criminale: è normale e naturale. Esso si esplicita spesso con maggior vigore proprio in quelle persone che nella loro vita hanno sperimentato il dramma della migrazione: fermatisi in un luogo e riusciti con fatica ad integrarvisi, temono più di altri che la propria conquistata stabilità sia resa precaria da ulteriori nuovi arrivi, e a questi ultimi manifestano spesso la propria opposizione con determinazione maggiore di quella degli "indigeni" originari. Capita sovente di sentire – a Torino, ad esempio – discorsi di forte condanna del fenomeno migratorio da parte di meridionali, che non hanno certo dimenticato l’ostilità con cui venivano accolti loro e le loro valigie di cartone quarant’anni fa, ma che ora rivolgono lo stesso astio e la stessa ostilità– quando non più forti ancora – contro i nuovi arrivati. Se poi siamo onesti con noi stessi, tutti riconosciamo nel nostro intimo quella serie di reazioni istintive che sopra ho descritto. Non credo nemmeno che ci dobbiamo vergognare nel riconoscerle, così come non ci vergogniamo del nostro istinto di possesso nei confronti delle cose, degli spazi, degli affetti. Sappiamo che è proprio del bambino piccolo definire la propria identità anche attraverso l’appropriazione di quello che lo circonda ("mio!" è una delle prime parole usate). Sono la curiosità, il benessere, la distensione che lo spingono a condividere il "mio" con gli altri. Proprio in questo consistono l’educazione e la crescita: nel permettere ad altri di rompere lentamente l’isolamento del mio territorio, senza per questo perdere la cognizione di ciò che io sono e di che cosa voglio. Ritengo che si possa correttamente riconoscere una forte affinità tra due processi di crescita: liberazione dalla paura istintiva di essere espropriati delle proprie cose; liberazione dalla paura istintiva di essere espropriati del proprio territorio, in senso reale. In parole semplici, l’avarizia e il razzismo sono atteggiamenti originari e istintivi; la generosità e l’inclusione (o integrazione) sono atteggiamenti acquisiti, frutto di educazione. Se è vero quello che ho detto finora, risulta allora chiaro che non c’è sostanziale differenza tra razzismo e xenofobia (chiedere che gli stranieri se ne stiano a casa loro). E sono evidentemente razziste tutte le forme di protezionismo dei posti di lavoro. Recentemente, ad esempio, sono state manifestate forti lamentele, secondo le quali i medici extracomunitari rischierebbero di essere troppi e di togliere il lavoro ai medici nostrani: da qui la proposta (provocatoria) di chiudere le iscrizioni alla facoltà universitaria di medicina. Questo ragionamento corporativo è chiaramente razzista, anche se chi lo fa si autodefinisce cattolico (che significa invece "universale"). Educarsi all’inclusione. È inoltre chiaro che il passaggio dall’atteggiamento istintivo di razzismo a quello acquisito di inclusione deve essere frutto di un processo di educazione metodico e costante. Tale processo non deve negare o cancellare brutalmente il substrato istintivo, ma lo deve modificare e reindirizzare, evitando l’insorgere della paura incontrollata. Esso potrebbe svilupparsi seguendo alcuni passi principali: – conoscere a fondo noi stessi e la nostra cultura, per rafforzare la nostra identità ed eliminare il timore dei confronti con culture diverse. È utile ad esempio approfondire le nostre tradizioni, i nostri dialetti; è utile ricordare la nostra storia, specialmente quella del lavoro; è utile ricordare quanti milioni di noi (Piemontesi, Siciliani, Campani...) anche solo nell’ultimo secolo sono migrati verso paesi stranieri; – stringere rapporti personali con stranieri, per togliere noi dall’isolamento, per togliere loro dall’isolamento. Parlare serenamente e sinceramente con loro delle loro difficoltà nel nostro paese, delle nostre difficoltà nei loro confronti. Provare a ragionare insieme su argomenti di interesse comune. Rendersi conto che essi provengono da etnie molto diverse tra loro e che non è possibile generalizzare (non esiste, ad esempio, un pensiero degli extracomunitari); – pretendere l’osservanza individuale e collettiva delle nostre leggi e il rispetto delle nostre usanze. Da parte nostra dobbiamo essere disponibili a cambiare le nostre leggi se queste si dimostrano lesive della dignità dei nuovi venuti, e consapevoli che anche le nostre usanze prima o poi cambieranno. Dobbiamo inoltre pretendere che noi siamo i primi ad osservare le nostre leggi: non è infatti tollerabile, ad esempio, l’utilizzo del lavoro nero, all’interno del quale si pratica la maggior parte dello sfruttamento degli immigrati; – rifiutare ogni atteggiamento protezionistico, italiano o europeo che sia. Chiunque è in regola con le nostre leggi (tasse comprese) ha diritto al lavoro, all’assistenza, alla casa...; – studiare come rendere giustizia ai loro Paesi di provenienza. Le migrazioni sono per lo più frutto dello sfruttamento internazionale nei loro confronti (svendita delle materie prime, corruzione dei governi, debito estero...). Bisogna ricreare condizioni vivibili, in base alle quali la vita nei Paesi di origine sia accettabile per questi migranti: non perché qui ci diano fastidio, ma perché ognuno, potendo, preferisce restare a casa propria; – prepararsi ad un riaggiustamento nel modo di ripartire i consumi a livello mondiale, perché non è possibile che il 20% della popolazione (noi siamo in quel 20%) continui ad utilizzare l’80% delle risorse, mentre l’80% delle persone si deve accontentare del rimanente 20% delle risorse. L’inclusione (il contrario del razzismo) non è quindi uno spontaneo atteggiamento di bontà: è un cammino metodico e a volte assai difficile, soprattutto nelle sue ultime conseguenze. Affermare pertanto "Noi non siamo razzisti" non è cosa facile: è un’affermazione impegnativa. Mauro Barrera
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