Editoriale |
Con questo numero di giugno direttore de il foglio sarà Antonello Ronca, che fa parte della redazione da cinque anni. È laureato in lettere, insegnante bravo e appassionato ma senza cattedra, collaboratore di Dimensioni Nuove, pubblicista iscritto all’Ordine dei Giornalisti, ha fatto un corso di perfezionamento post-laurea in filosofia e teologia. Ha 33 anni (io quest’anno 66). La redazione unanime lo ha scelto, su mia proposta.
Trent’anni della mia direzione (dall’inizio, nel 1971) possono bastare. Non mi ero accorto che fossero tanti. Il direttore non fa molte cose più degli altri. Cesare Maletto ha l’occhio giusto per la grafica, che è un po’ fitta, perché abbiamo sempre tante cose da infilare nelle otto pagine, ma è elegante e limpida nella sua sobrietà. Aldo Bodrato, oltre i suoi poderosi articoli, cura l’impaginazione, ed ha così una parte importante nella responsabilità di includere o escludere, con dispiacere, i pezzi (pigliatevela con lui). Tutti i redattori, anche quelli che scrivono meno, fanno il giornale con la discussione sempre intensa, in ogni riunione settimanale di un paio d’ore. Tutti facciamo la manovalanza della spedizione. Allora, il direttore che cosa è? Si è dato uno stipendio cento volte superiore a quello dei redattori, ma se l’è poi trovato uguale: non aveva tenuto conto che lo zero moltiplicato quanto vuoi fa sempre zero. Stupidaggini a parte, il suo compito consiste, per un verso, nella rappresentanza esterna e, per l’altro, nel tenere le fila delle riunioni (niente facile, mica ci riesce sempre). Alla fine, bene o male, il foglio esce. Da trent’anni. Con questo cambio non cambierà molto, se non in meglio, ma era ora (non ci avevamo pensato prima) che si rinnovassero faccia e nome di chi dirige la baracca. Io divento semplice redattore. Avrò meno scuse davanti a chi dice che scrivo troppo. Sono contento che questa piccola impresa di comunicazione e riflessione continui in mani più giovani, non solo del nuovo direttore Antonello, ma anche di redattori arrivati tra noi negli ultimi tempi, come Davide e Fausto, e forse altri ancora, insieme ad amici più esperti. Vediamo un po’ tutti insieme, lettori, redattori, direttore, come continuare nei giorni che ci attendono. Come il primo giorno di scuola. Non avevo capito bene neanche dove fosse. Avevo telefonato. Enrico aveva detto: vieni pure, verso le sei. Ed ecco tutti questi serissimi "professori" attorno a un tavolo, animarsi, discutere, con un pizzico di anarchia. Era il giorno della spedizione. O forse della chiusura. Quello che è certo è che alla fine credo padre Bernardino (che ci ha lasciato ormai da un anno, e anche se non parlava tanto, era puntuale con le sue battute e affabile nella sua disponibilità) mi ha detto: "Non è sempre così confusa la riunione di redazione. Stai tranquillo". Io avevo con me un pezzo che avevo scritto (una preghiera?). Ma mi ci sono volute due o tre volte prima di prendere il coraggio di leggerlo. Davo del "lei" a tutti. Mi sembrava di essere un po’ fuori posto. A occhio e croce ero il più giovane di tutti. Non mi potevo sbagliare. Ne avevo sentito parlare dal mio parroco, don Oreste. Bruno, della mia parrocchia, me ne aveva dato un po’ di arretrati. Mi aveva colpito in particolare – ricordo – un articolo su Fatima. Molto secco. E mi aveva detto: "Perché non vai qualche volta al foglio?". "Vediamo". Non penso di essere mancato molte volte da quel giorno. E ho sempre... giustificato. Non è cambiato molto, da allora. Sì, sono passato dal "lei" al "tu". Per forza, Enrico mi ha obbligato. Il senso di inferiorità davanti a cotanto senno... diciamo che non ci penso più tanto; poi ho cercato di non farmi scappare nulla di quello che dicevano, di quello che leggevano (ma quanto leggono? di quante cose si interessano?). Con avidità, direi quasi. E ultimamente sono anche andato a studiare un po’ più sul serio materie nelle quali ero un po’ orecchiante. Nessuno forse, neanche i lettori che conoscono personalmente l’ex direttore o qualche altro redattore (e sono molti) sospettano che dietro al foglio ci sia un "lavoro" settimanale. Sproporzionato. Ma questa "rivistina" (come ci ha definiti una volta Bobbio, per apprezzarci, e che secondo Fofi è una delle tre-quattro cose migliori che si fanno a Torino: grazie, ma esageruma nèn) è anzitutto uno stile. È inutile che vi convinca della sobrietà (eccessiva?) di quanto vi sta davanti. Il bello è quello che avviene tutti i santi martedì. Ognuno legge quello che ha scritto. Gli altri, chi vuole, intervengono, criticano, confermano. A volte – di raro, ma capita – le voci si fanno anche grosse. Non conosco molte altre redazioni in cui tutto, assolutamente tutto quello che viene pubblicato viene letto e approvato, diciamo all’unanimità, in pubblico. Basta leggere, per vedere che questo non produce unanimismo. Anzi. Piuttosto una sorta di diario mensile collettivo. Ora mi hanno fatto direttore. Hanno aspettato che fossi via (per studio!) per decidere, poi una volta, così – en passant – mi chiedono: "Allora quando potrai di nuovo venire regolarmente il martedì? " Ma solo per dire: "Bene, allora da quel momento farai tu il direttore". La rivista ha tutta una storia, è nata in un preciso contesto culturale e ecclesiale (io sono sessantottino... ma solo di nascita!). Ho sfogliato (ma non letto sistematicamente) la raccolta completa. Ce l’ho rilegata. Mi sembra – anche se non c’ero – che faccia parte della mia storia. Eppure molto entusiasmo è venuto meno. Tematiche come quelle che leggete tutti i mesi sul n/vostro foglio sono non solo di minoranza. Sono quasi in via d’estinzione. O forse no. Tra i giovani, certo, parole come concilio pace nonviolenza impegno sinistra bibbia cristianesimo (metto a caso), dicono poco o nulla. Poi però vedi uomini e donne, ci parli, fai vedere il foglio, anche a giovani, e ti rispondono: "Beh, non condivido tutto, ma certo che quello che dite – si sente – è partecipato e convinto". Vorrei contribuire a far continuare l’avventura di questi amici, almeno quanto l’ha fatto Enrico, con tutti gli altri. Di mio dico solo questo: mi piacerebbe riuscire ad "ascoltare i pesci" (Basilio Magno). O almeno gli uomini. Antonello Ronca |