LEGGERE E SCRIVERE (2)
La parola restituita 
Continuiamo a pubblicare i materiali del convegno per il xxx anniversario del foglio. Quello che segue è un articolo di un lettore di Palermo, collaboratore di Rocca. 

L’atto del leggere e dello scrivere esprime la nostra realtà esistenziale. Leggere significa aprirsi all’esterno e ricevere ciò di cuiabbiamo bisogno per capire noi stessi, gli altri e il mondo. L’esercizio della lettura ci ricorda chenon siamo autosufficienti. Senza occhi aperti sull’esterno non riusciamo ad avere coscienza di noi stessi. Saremmo come dei corpi in un ambiente sottratto alla forza di gravità.

In questo senso lettura è ogni tipo di rapporto con gli altri. Non si legge solo sulla carta stampata. Si legge negli occhi del prossimo.
Un viso è spesso più eloquente di una pagina. Una passeggiata per le vie di una città sconosciuta ce la squaderna a volte più di una guida turistica. Brevi frasi di un sant’uomo, magari registrate, ci possono dire di lui più di una biografia. 

Scrivere significa comunicare. È l’altro aspetto del leggere. Se immagazziniamo solamente rischiamo di scoppiare. È necessario rielaborare, personalizzare e dare all’esterno qualcosa di nostro arricchito con ciò che abbiamo ricevuto. È contro natura esaurire in noi stessi le ricchezze e le potenzialità di cui siamo depositari. Voler pubblicare i propri scritti è fisiologico, naturale, come il voler stabilire dei rapporti con una compagna, come voler parlare delle proprie aspirazioni e realizzazioni con gli amici. 

Però la scrittura come comunicazione, se vuole giungere a una più completa forma di rapporto con gli altri, deve sfociare nel fare. 

Gesù comunicava con parole e opere. La parola non agganciata al fare è come un palloncino colorato sfuggito di mano. È bello da vedersi per pochi minuti, ma poi non resta più niente. La parola deve diventare pesante, materializzarsi. La Parola di Dio faceva, creava. Ha creato il mondo, gli animali, gli uomini. La Parola di Dio in forma di sacramento crea nuove creature per il Regno dei cieli, riattualizza la presenza del Cristo in terra con l’eucaristia. Ogni parola dell’uomo per non essere banale aria fritta dovrebbe avere la forza e l’efficacia sacramentale. Annunciare la pace facendola, scrivere di solidarietà e attualizzarla con dei gesti. 

Nell’esperienza del leggere e dello scrivere si compendia l’intera esistenza, che si sviluppa entro questo pendolarismo. Un pendolarismo che oscilla tra recettività, accoglienza, apertura, disponibilità, e creatività, dono, esplorazione, produzione: tra atteggiamento femminile e maschile. 

Giovanni Paolo I, papa Luciani, nel suo brevissimo pontificato parlò di Dio come Padre e Madre. Anche noi siamo chiamati a vivere questa ambivalenza, che non annulla certo la differenza, ma che richiama a un completamento che solo Iddio possiede in pienezza,
e che per noi è ancora ricerca nell’altro. Leggere e scrivere esprime dunque l’ambivalenza della nostra situazione attuale. 

L’atto del leggere e dello scrivere comporta anche un atteggiamento di profondo rispetto e attenzione verso noi stessi e verso gli altri. Si deve essere concentrati per leggere con profitto, così come l’atto dello scrivere non sopporta distrazioni. L’attitudine a leggere e scrivere diventa perciò attitudine a prenderci sul serio e a prendere sul serio gli altri. 

Non così è con alcune delle nuove tecniche di comunicazione. La televisione, ad esempio, si può guardare distrattamente, abituandoci ad un atteggiamento di recezione passiva ed acritica, da sottofondo, da lavaggio del cervello. Abitua ad un rapporto di apprendimento non impegnativo, superficiale. 

Così l’eccesso di produzione televisiva banalizza l’apporto che si può dare al prossimo. Senza adeguati momenti di silenzio si comunicano solo insulsaggini. Un teleschermo che deve eruttare 24 ore su 24 non lascia spazi all’introspezione. La pagina bianca che aspetta di essere riempita ci obbliga invece a scendere dentro di noi per vedere se abbiamo qualcosa che meriti essere
comunicato. È un invito al silenzio, non quello che isola dagli altri, ma quello che precede il confronto a viso aperto. Il silenzio operoso durante il quale si prepara la casa dove vorremmo che molti entrassero, un silenzio che si appresta a essere un immenso luogo d’asilo. 

Nulla, o quasi, di tutto ciò accade, almeno stando ai risultati attuali, nel rapporto con il mezzo televisivo, mezzo che è ormai diventato sinonimo di dispersione e disimpegno, anche quando pretende drappeggiarsi con vesti meno frivole. 

Bernanos ci ricorda che il Giudice, nell’Ultimo giorno, ci dirà: "Restituiscimi la mia Parola". Questa frase, assieme a quell’altra che ci ricorda come profeti e imbroglioni usino le stesse parole, dovrebbe campeggiare bene in vista sui nostri scrittoi. 

Infine un ricordo della mia prima maestra. Si chiamava Onorina Vigliano, ed era già stata la maestra della mia mamma. Consacrò l’intera vita – nei paesi del Monferrato e poi in Casale – a iniziare un indefinito numero di piccoli e piccole alla lettura e alla scrittura. Era una tota, maestosa ai miei occhi di fanciullo. 

Aveva una calligrafia bella e nitida, curata come se dovesse sfidare i secoli. Mentre scriveva alla lavagna pareva celebrasse una liturgia. Quando poi firmava documenti importanti quali la pagella, usava i caratteri gotici e il pennino quadro. La O iniziale del suo nome mi appariva come la vela maestra di un galeone veleggiante sul mare del sapere e delle parole. 

Potevo non appassionarmi allo scrivere con una maestra così? 

                                                                                  Romolo Menighetti

 
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