FARE DEMOCRAZIA
Dal federalismo alla federatività

A proposito del referendum del 7 ottobre sulla riforma costituzionale proponiamo questa riflessione.
 

Ma cos’è questo federalismo? Com’è possibile che possa essere rivendicato da forze politiche non solo diverse ma opposte, per origine e per programmi? Sinistra, centro, destra; tutti i partiti si proclamano federalisti.L’opinione pubblica è disorientata, gli stessi addetti sono in grande 
confusione, non in grado di precisare principi e prassi operativa, linee orientative e modalità di 
intervento.Federalismo è diventato una parola passepartout. Tutti fanno a gara per non apparire tiepidi, per esserlo di più.
Ho messo giù riflessioni personali su questo argomento in un testo assai ampio (“Fare democrazia: dal federalismo alla federatività”, edizioni Cervino, Châtillon). Provo a riassumere.

Bossi in Valle d’Aosta.

Un capitolo iniziale, a mo’ di prologo, racconta la parte che l’Union Valdôtaine, forza politica di gran lunga egemone in Valle d’Aosta, ha avuto come “pronuba” della Lega di Bossi. Infatti, nel 1979 un dirigente di questo movimento, Bruno Salvadori, mentre stava girando l’Italia per presentare in tutti i collegi elettorali una lista per le prime elezioni europee, incontrò casualmente davanti all’Università di Pavia lo studente in medicina Bossi Umberto.Idee buttate lì in un’affrettata conversazione, fruttificarono.Ci furono successivi incontri, un’intesa, iniziative comuni.Morto Salvadori l’anno successivo in un incidente stradale, il “feeling” tra Union Valdôtaine e una prima “Lega autonomista lombarda” durò per un decennio.Poi l’Union Valdôtaine, camaleontica per natura, prese le distanze.

Comunque Bossi dalla Valle d’Aosta trasse non solo l’imbeccata, ma l’esempio e gli slogan: essere padroni in casa propria, rivendicare autonomia, storica, culturale, economica contro “Roma ladrona”, propugnare un federalismo delle etnìe come progetto politico. E la Lombardia, ben più grande e più potente della Valle d’Aosta, sviluppò questa linea con ben maggiore incidenza e ripercussioni. Approfittando di un sommovimento della società civile che chiedeva rottura col centralismo dei partiti e della politica, spazi di partecipazione democratica, lotta alla corruzione (ben ricordiamo i cortei in appoggio a “mani pulite”, in cui la Lega era in testa invocando: “Di Pietro, Colombo, andate fino in fondo”), questo nuovo soggetto politico spuntato quasi all’improvviso divenne protagonista sulla scena politica italiana, stupendo l’intera Europa.

Bossi aveva fatto proprio l’equivoco vessillo politico dell’Union Valdôtaine; il federalismo, proposto insieme alla rivendicazione di una “nation valdôtaine” che non è mai esistita, con le caratteristiche delle nazioni storicamente definite come tali. Tanto che l’Union Valdôtaine nacque nell’autunno del 1945 come “mouvement régional” e solo nel 1975 si trasformò in “mouvement 
national”, inserendo nello statuto l’impegno a realizzare la “souveraineté politique” della Valle d’Aosta, in un quadro di federalismo europeo. Ora, è facile rilevare che non si può proporre 
federalismo e sovranità insieme, essendo l’uno negatore dell’altro.Cosicché c’è in Valle d’Aosta un federalismo gridato e un centralismo regionale praticato.Non fanno così anche Bossi e Formigoni in Lombardia?

Il nuovo che avanza.

Con la costituzione della Lega Nord nel 1991 l’“equivoco Lega” si è diffuso in tutto il Settentrione. Assorbita la massiccia ondata di risentimento antiromano e di memoria storica espressa dalla Liga Veneta, la quale sì, almeno essa, poteva richiamare i ricordi della “Serenissima”; assorbite pure le spinte autonomistiche del Piemonte e del Friuli, incanalate in un unico alveo le pulsioni per una “politica dal basso” provenienti da altre regioni, la Lega Nord si trovò tra le mani un consenso di proporzioni gigantesche: alle politiche del 1992 in certe zone della Lombardia più del 50% dei voti, il 16% globalmente nel Nord e il 10% come media nazionale.E venne letteralmente inventata la Padania, la “nazione padana”.

Erano i tempi del “nuovo che avanza”. All’inizio del ’94 si affacciò Berlusconi e con Forza Italia ricostituì in forme nuove quanto l’andreottismo e il craxismo avevano attuato negli anni ’80: l’occupazione del potere, ben oltre la misura “dorotea”, che aveva tutto sommato una sua discrezione, e lo sbandieramento sloganistico di progresso-felicità. Si ricorderà il cantilenare maestoso del nocchiero Craxi (“la barca va”) e il mormorare sapienziale del manovratore Andreotti (“tutto s’aggiusta”).Com’è finita? Le pulsioni rinnovatrici, che la Lega aveva pur espresso, sono annegate in un calderone in cui l’efficienza produttivistica si sposa con campagne mediatiche da “pubblicità-progresso”, che galvanizzano un’opinione pubblica massificata e incapace di intendere la vacuità di un progetto politico.Si aggiunga la montante ondata di revisionismo storico e di rivalutazione culturale di certi “valori nazionali” retaggio di un infausto regime e si comprenderà facilmente quanto questa parte politica, attuale maggioranza di governo, sia lontana dalle idee federaliste.

Nel testo di cui si dice in questo articolo si analizza un dato: le forze della sinistra storica non hanno il federalismo nel loro dna. Il partito comunista, ad esempio, alla Costituente fu contrario all’istituzione delle Regioni. Poi, difficile dire se per strategia o per tattica, le impugnò contro la Democrazia cristiana, che da parte sua aveva voluto le Regioni nella Costituzione, sulla linea sturziana delle autonomie locali come pilastri della società civile che tengono a bada l’onnipotenza dello Stato, ma dopo venticinque anni non le aveva ancora varate, cedendo alle intimazioni delle destre che tuonavano contro il rischio di “disgregazione del paese”. Quando poi le Regioni a statuto normale furono varate, nel 1970, nacquero con tutti i danni del ritardo.Ben poco si innovò. Le modalità politiche del Palazzo si riprodussero nei “palazzetti”. Forme di partecipazione democratica dal basso, ben poche. Qualche tentativo, i Consigli di quartiere, le Comunità Montane, poco altro. I famosi “decreti delegati” del 1975, che avrebbero dovuto movimentare la società civile in un settore importante come la scuola, hanno avuto la irrisoria incidenza che sappiamo.

Attualità del personalismo.

Oggi, un uragano di consensi per il federalismo.Ma dalle proposte che si conoscono, quelle pasticciate, quelle urlate, e anche quelle più organiche come il progetto presentato dall’Ulivo sul finire della legislatura, il federalimo non sembra essere all’altezza del “cambio d’epoca” che stiamo vivendo.

Il federalismo deve diventare federatività. Cosa vuol dire? Occorre richiamare il deficit di democrazia che c’era nella applicazioni storiche del federalismo, a cominciare da quello che è l’esempio maggiore, il federalismo degli Stati Uniti. La Costituzione di quel paese è stata redatta da conquistatori inseritisi in terra d’altri, dopo aver affermato che “tutti gli uomini hanno diritto alla felicità”, gli Stati “federati”, ovvero Uniti, utilizzarono la guadagnata indipendenza dall’Inghilterra per campagne di sterminio, o di confinamento dei nativi, legittimi possessori di una terra in cui da sempre erano vissuti. Dov’erano i diritti, addirittura alla felicità? Dov’era uno stato (status) cioè una condizione di avente diritto rispetto ad uno Stato che si arrogava il diritto di esercitare potere secondo i suoi propri, esclusivi interessi? Era federalismo o era sovranità? 

Ecco, si potrebbe dire, alla buona, che federatività è mettere gambe ai diritti-doveri, farli camminare, farli diventare norme ed istituzioni, in tutti i luoghi del pianeta.Già questo sarebbe una novità assoluta: l’ambito dell’intero pianeta che abitiamo.Ciascun membro dell’universale famiglia umana messo in grado di attivare sé stesso per diventare soggetto operativo di questi diritti-doveri. 

Detto così, appare certo semplicistico. Cosa occorre? Da che partire? Dal personalismo. Sarebbe certo insufficiente riproporre tale e quale il personalismo comunitario di Emmanuel Mounier. Era una proposta rivoluzionaria ai suoi tempi, anni ’30 e ’40. Oggi non basta più. E tuttavia si può partire dalle idee di fondo che Mounier espresse con limpidezza di pensiero e con una pregnanza etico-morale che ancora affascina e convince: erigere la persona nella sua pienezza, ritrovare il suo essere. Cos’è l’essere di una persona? È coscienza incarnata, legata a un corpo, e in questo, ad uno spazio, a un tempo, a una storia. La persona si manifesta sin dall’inizio come relazione verso gli altri e in altri. Dice il personalismo: è questa alterità che mi restituisce a me stesso, che mi accresce, che potenzia le mie capacità e le mette a servizio della società. Mounier riassume il rapporto persona-comunità con l’affermazione: la comunità è “persona di persone”.

Secondo Mounier e i personalisti c’è una differenza radicale fra individuo e persona.Il primo si contrae in sé stesso, nell’attitudine borghese di accumulazione e poi di difesa ad oltranza dell’avere accumulato, utilizzando le norme giuridiche della proprietà; la seconda si apre all’unità con l’altro, in un continuo movimento di personalizzazione. Quindi la proprietà cambia radicalmente di concetto, viene considerata secondo il suo uso, secondo le sue finalità.

È una nuova società e una nuova autonomia che vengono disegnate.

I limiti di un articolo non consentono di aggiungere altro. Sia permesso solo segnalare che in una linea orientatrice verso la federatività un posto importante, diciamo pure primario, spetterà alla rivoluzione in genere. Che sarà la vera rivoluzione epocale. Da intendersi come rivoluzione dei “due generi”, quello femminile e quello maschile. Finora, dicendo “problemi di genere”, ci si riferiva puramente al genere femminile. La donna, scoprendo sé stessa, ricercando i caratteri costitutivi del suo genere, ha però costretto l’altro genere a riscoprire, o scoprire, ciò che gli è connaturato, distinguendolo da ciò che si è incrostato o sovrapposto nella vicenda storica, che è stata mascolinocentrica.

Si pensi a cosa vorrà dire mettere in campo questi temi, su scala planetaria. Ma è per questo che la federatività è tutta da costruire. Ed è sulla federatività che si concretizza il percorso “dal locale all’universale”.

È l’inedito. Nel senso, diceva Ernesto Balducci, del “non ancora edito”. 

Gianni Bertone
 


 
 
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