Il crimine non è critica, la critica non è crimine
1 – La strage di New York e di Washington non è una critica del dominio Usa, ma un delitto contro migliaia di vite umane. La critica del dominio Usa non è un crimine e non riduce il dolore, l’indignazione, la pietà, la solidarietà con il popolo statunitense e con tutti i popoli colpiti dalla strage.

La vendetta – la più primitiva delle reazioni – è un nuovo crimine, che merita una nuova critica. Non si deve odiare, né provocare l’odio, né restituirlo. Anche con i più fondati motivi «ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo  lo rende ancora più inospitale», diceva Etty Hillesum, ben sapendo che stava per essere deportata ad Auschwitz, a morirvi. 

2 – Questa strage volutamente spettacolare si è impressa per sempre negli occhi globali dell’umanità. Altre stragi molto maggiori sono rimaste invisibili, anche occultate ad arte ai nostri occhi e coscienze. Ma non c’è gerarchia che valga, tra le vittime. Il diritto alla vita non dipende dalla potenza, né dalla virtù o dalla colpa. Vorremmo saper giudicare quell’atto terribile cercando equanimità e uno sguardo ampio, come esige l’enorme gravità del fatto.

3 – Il governo statunitense ha subito accusato forze esterne, prima di ogni prova. L’alta probabilità non basta per un giudizio giusto, unica risposta degna alla grande ingiustizia. Un giudizio giusto deve essere emesso da un giudice terzo. Ma gli Stati Uniti sono decisamente contrari all’istituzione di un tribunale internazionale per crimini analoghi a questo, perché, come dichiarano, i loro cittadini non possono essere giudicati da nessuno. Farsi giudici in causa propria, per giunta con una giustizia militare, conferma moralmente il metodo dei “giustizieri” che hanno decapitato New York. La civiltà del diritto nega se stessa se avalla la regola della forza fattuale. 

4 – Se diciamo «stragi americane» dobbiamo precisare che questa volta sono patite e non inflitte. Ciò non riduce per nulla questa colpa disumana. Ma serve ad abbattere quella illusoria separazione tra il Bene, tutto nostro, e il Male, tutto loro, con cui Bush ha voluto subito consacrare la nuova guerra, colpevole come tutte le altre.

5 – Subito si è parlato di «atto di guerra». L’espressione voleva dire la gravità e il volume di potenza. Ma parlare di «guerra» richiede guerra. Legittima l’avversario, gli riconosce quel titolo e quel diritto di belligerante di cui gli stati continuano a farsi gelosi titolari. Si è trattato, invece, di un grande delitto di strage, spudorato nella sua spettacolarità. Il delitto che viola la legge richiede giudizio legale, con procedure legali, non guerra senza legge né regole, per sua natura uguale al terrorismo, anzi ancora più vasta e più cieca.

Si è avviata la ricerca degli stati colpevoli, per giustificare la guerra di vendetta come una guerra tradizionale tra stati. Le guerre attuali avvengono quasi tutte tra fazioni armate, entro gli stati, contro i civili trattati da ostaggi. Proprio come questa strage. Sono l’impotenza civile, l’incapacità di trattare politicamente i conflitti naturali dentro i popoli o le comunità di popoli. Se poi quella di Bush sarà guerra-ombra (come ha detto uno dei primi giorni), guerra di 007 con licenza di uccidere, allora sarà simile al terrorismo. Parafrasando Weber, dovremo dire che lo stato si arroga il monopolio del terrorismo legittimo. Se lo stato non è politica, organizzazione di convivenza e speranza, limitazione e restrizione per legge di ogni violenza (anche della forza della polizia), fino al suo tendenziale completo superamento, è quel «grande latrocinio» che diceva Agostino (De civitate Dei, iv, 4). E Machiavelli: «Dove molti errano niuno si gastiga, e falli piccoli si puniscono, i grandi e gravi si premiano» (Istorie fiorentine, xiii). E tuttavia, non stiamo parlando contro lo stato, senza il quale, attualmente, avremmo solo una giungla peggiore, ma per il suo compimento nella politica della nonviolenza, un progetto che si delinea sempre più necessario. Come diceva Balducci al tempo del terrorismo in Italia: «Con lo stato, oltre lo stato».

6 – L’Europa (persino qualche ministro italiano, all’inizio), si è dimostrata nel complesso più saggia, moderando la reazione degli Stati Uniti. Berlusconi, col ripetere che starà con l’America prima di sapere cosa fa l’America, e poi con la gaffe mondiale sulla «superiorità», conferma la sua piccolezza (la scaltrezza è altra cosa dalla qualità politica). Più di tutte le personalità, ha parlato bene il Papa, ripetutamente. Reso affetto e onore all’«amato popolo ferito», lo ha invitato a «non cedere alla tentazione dell’odio e della violenza, ma impegnarsi al servizio della giustizia e della pace». Parole che dicono molto.

7 – La popolazione degli Stati Uniti, comprensibilmente, segue nella maggior parte Bush, cercando di superare il trauma patito con una nuova gloria, come curò il trauma del Vietnam con le “vittorie” dei decenni seguenti, fino al Golfo e alla Serbia. Reagire alla violenza con la violenza è facile, ma è essere vinti, catturati. C’è però anche una coscienza dell’altra America, quella che, durante il Vietnam, parlò e agì in Luther King, il più grande statunitense del ’900. Al dolore e all’offesa, la vera grandezza di quel popolo saprà rispondere con voci nobili di pace, che già arrivano (vedi qui a p. 3), nonostante il coro monotono dei media.

La criminalizzazione dell’Islam. 

8 – L’Occidente ha immediatamente accusato l’Islam. L’Islam rimprovera all’Occidente le Crociate, il colonialismo, l’occidentalizzazione del mondo, l’invasione culturale ed economica. Queste violenze strutturali sono un’esca troppo facile agli spiriti violenti, specie nell’Islam oggi risorgente, per farsi vendicatori delle offese subite, più che vindici di una causa di giustizia mondiale.

La convivenza pacifica tra musulmani, cristiani, ebrei, rotta dai cristiani, è stata possibile ed è nel cuore della storia dell’Europa. L’Islam è differente, ma non è estraneo e intruso nel nostro luogo, che riteniamo “centro del mondo”, tanto meno è il Male da estirpare. Voci serie si oppongono nell’Occidente, grazie a Dio, alla criminalizzazione dell’Islam, ma si verificano già troppi episodi di guerra culturale e di caccia all’arabo. La Lega xenofoba, in Italia, ha equiparato immigrati e terroristi, minacciando di distruggere edifici di convivenza più preziosi delle torri. 

Chi conosce e ammira i valori dell’Islam, oggi deve intensificare il dialogo con i musulmani tra noi, e con tutti gli altri tramite loro. Il dialogo aiuta ogni civiltà a superare i propri limiti (chi non ne ha?) e ad abbandonare ogni arroganza offensiva. Il muslim ha da seguire la clemenza e misericordia di Dio e da operare positivamente per la giustizia. Se nei paesi islamici si realizzasse quella giustizia sociale che il Corano esige, l’Islam troverebbe ammiratori e alleati in Occidente, nella coscienza del movimento per la giustizia mondiale che si è risvegliato negli ultimi anni. È un fatto, invece, che per lo più ristrette classi ricche governano con pretese teocratiche masse islamiche povere e le manovrano per fini propri contro l’Impero occidentale.

9 – Il primo nome divino dato alla guerra («Infinita giustizia»), dimostra la pretesa idolatrica e blasfema sottostante alla risposta statunitense e atlantica, inizialmente pensata proprio come una guerra di religione, che dunque somiglia, in qualche modo, all’assolutismo teocratico degli omicidi-suicidi. Anche se questo linguaggio fosse più violento delle azioni, nell’intento di placare il dolore popolare, sarebbe sbagliato e disastroso. 

La guerra di religione e di civiltà, emergente tra linguaggio spontaneo e smentite, rinnega le migliori conquiste dell’Occidente: la laicità della convivenza, la deposizione di ogni verità armata per l’ascolto dialogico della verità. Divinizzare le proprie ragioni, pur giuste come il diritto alla vita, è un fondamentalismo (meglio: totalitarismo, come pretesa di essere tutto) speculare all’altro. 

Non conviene al mondo islamico dare ragioni di lotta assoluta all’Occidente: ecco la truce stoltezza dello spettacolo e delle dimensioni di questa strage, se davvero è stata compiuta da islamici. Non conviene all’Occidente esasperare le ragioni teologiche dell’odio islamico. Molto meglio capirne le ragioni terrene, criticarle, correggerle, dialogando a tutti i livelli, locale e mondiale, senza ultimatum. Una conferenza mondiale sui conflitti che hanno alimentato questa esplosione di violenza sarebbe la via più giusta, più della guerra, anche più di una polizia dell’Onu, finora impedita, anche più di un tribunale internazionale, finora impedito. La formula sudafricana della «verità senza vendetta, per la riparazione e la riconciliazione», è la più giusta e vitale, è quella che rende il maggiore onore alle vittime e può guarire la società dall’odio, perché è la più libera dalla violenza. Certo, impegna a fondo il meglio dell’umanità di tutti. Anche per questo è la via da scegliere. Dire l’utopia non è inutile, perché rettifica il cammino, almeno negli occhi più attenti.

10 – C’è stata, per lo più, un’enfasi semplicistica e sommaria dei media, contaminati dalla violenza della strage, disponibili come sciacalli educatori di sciacalli a cibarne lettori e spettatori. Lo scoppio delle torri è stato ripetuto in modo ossessivo sugli schermi. C’è stata un’epidemia del suicidio-omicidio dentro le nostre menti, con rischio di imitazioni. Sapere e vedere si deve, ma lo spettacolo della crudeltà nega la pietà. 

Gli intellettuali per lo più hanno santificato gli Usa per questa offesa, e ne hanno osannato il potere. Il loro compito, invece, è sempre analizzare il potere e criticarlo, non servirlo, non celebrarlo. Hanno le conoscenze per distribuire il “potere di”, che può essere di tutti, mentre il “potere su” è necessariamente di alcuni contro altri. Il trono e la corte non sono il posto di chi pensa, neppure quando sono attaccati.

Enrico Peyretti


 
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