11 SETTEMBRE 2001 |
Siamo tutti cittadini del mondo |
La solitudine degli Usa ai vertici del potere mondiale, la loro apparente condizione di “onnipotenza” sono una minaccia sia per gli Stati Uniti stessi che per il resto del mondo. L’onnipotenza genera infatti sindromi da delirio in chi la detiene e in chi la combatte, e facilmente produce trappole mortali che avvitano tutti in un processo autodistruttivo.
È il quadro che oggi si presenta ai nostri occhi, dopo l’attentato suicida dell’11 settembre. Senza tentare l’analisi degli eventi di questa tragica giornata e delle reazioni che provocheranno, provo a rimescolare un po’ le carte per evitare semplificazioni troppo schematiche e rendere problematiche, quindi più capaci di indagine e di verità, le nostre zoppicanti certezze. Gli Stati Uniti, dopo la fine del comunismo reale, sono il deus ex machina di tutti gli eventi storici dell’ultimo ventennio. Sono rimasti l’unica potenza mondiale, quindi nulla può accadere senza che essi lo abbiano direttamente o indirettamente provocato. Quello che è accaduto a New York e Washington ha origine e fine negli Stati Uniti stessi. Il discorso sull’onnipotenza, sopra accennato, è portato così alle ultime conseguenze, secondo una logica dell’unità del tutto e della concatenazione causale della storia degna della più coerente teologia platonica e idealista. Se la storia funzionasse secondo nessi di rigida necessità gli Stati Uniti sarebbero la “causa prima” dell’orribile strage e dovrebbero di conseguenza dichiarare guerra a se stessi. Ma la storia, se non è puro frutto del caso, è per lo meno un intreccio complesso di azioni e reazioni, di sopraffazioni e di ribellioni, di debolezze e di forze, di disperazioni e di speranze che s’incontrano e s’incrociano nel più imprevedibile dei modi. Gli Usa hanno responsabilità pesanti nella diffusione del terrorismo, vuoi per la loro politica di dominio e di prepotenza, vuoi per le loro connivenze segrete con molte centrali del terrore. Ma se uno solo è l’onnipotente ufficiale, molti sono i potentati locali e internazionali. In questo caso l’onnipotenza statunitense più che come causa si presenta come catalizzatrice di violenza. Le ingiustizie e le sofferenze nei paesi poveri del mondo, frutto della politica economica dell’Occidente, sono tali che era logico aspettarsi una violenta rivalsa. Chi semina vento raccoglie tempesta e il terrorismo islamico è la risposta sbagliata ad una rivendicazione giusta. Nulla di più approssimativo e controproducente per chi ha a cuore il riscatto del Sud del mondo. Il terrorismo islamico non ricerca la giustizia sociale, ma la guerra, nella speranza che dal caos di un conflitto generalizzato possano cambiare gli equilibri di potere a proprio vantaggio. Del resto non sembra che la maggior parte degli stati islamici valorizzino oggi davvero, al loro interno e nelle relazioni internazionali, le istanze di giustizia economica e sociale presenti nel Corano. Se mai si volesse cercare una ragione ad un gesto tanto disumano, ci si dovrebbe indirizzare verso la richiesta dei popoli islamici di avere peso, rispondente al loro numero, alla loro cultura e ai loro diritti, nella soluzione politica e militare dei conflitti che insanguinano il Medioriente. Abbattendo le torri di Manhattan e bombardando il Pentagono i terroristi hanno colpito il cuore dell’Occidente, i simboli del suo vivere civile, basato sulla libertà, sulla tolleranza e sulla giuistizia. Essi sono l’espressione delle barbarie e hanno svelato il vero volto del male. È indubbiamente vero che, uccidendo, senza giustificazione alcuna, oltre se stessi, anche migliaia di altre persone, i terroristi hanno commesso un crimine contro l’umanità. Ma è altrettanto evidente che, accanendosi contro le torri più alte di New York e contro il Pentagono, hanno colpito simbolicamente il centro economico e militare della potenza americana, non gli ideali di libertà, di equità e di tolleranza che dovrebbero animare dal profondo le società occidentali. A meno che armi e denaro siano per noi la forma più alta d’espressione di libertà, giustizia e tolleranza. Dobbiamo annientare senza pietà i terroristi mediorientali e gli stati che li proteggono, perchè dobbiamo difendere i valori della nostra civiltà. Quel che è possibile fare nella legalità internazionale per arginare il terrorismo (estirparlo definitivamente è illusorio) e per ricondurre a una politica ragionevole gli stati che lo tollerano e lo usano, va indubbiamente fatto. Ma ciò non c'entra con la difesa dei valori, che può essere davvero realizzata solo mettendoli in pratica nelle relazioni sociali interne e internazionali. Chi si fa scudo della “difesa dei valori” per scatenare scontri di civiltà; chi parla di lotta contro il male per qualificarsi automaticamente come bene; chi chiede di rispondere al sangue col sangue, alla guerra con la guerra, non è vero figlio degli ideali occidentali, ma dell’ancestrale legge del taglione. Chi ritiene di dover azzerare la «Dichiarazione dei diritti dell’uomo» per liberarsi dei nemici, per mettere a tacere gli oppositori interni, per sfruttare economicamente i lavoratori stranieri, per dominare sui deboli, è il vero nemico dei valori dell’Occidente, fosse anche un occidentale doc. All’origine delle azioni più efferate del terrorismo internazionale sta il fanatismo religioso dell’Islam, che predica e vuole la guerra santa contro l’Occidente e identifica religione e politica. Fa comodo pensare che i terroristi abbiano sacrificato la loro vita in un atto tanto sanguinario nella speranza di raggiungere il paradiso delle Uri e non anche per la convinzione di non potersi in altro modo sottrarre al destino di subordinazione all’Occidente dei loro popoli. Fa comodo perché ci evita di misurarci con le nostre responsabilità nell’alimentare quel clima di sofferenza e di rivalsa che genera integralismo e terrorismo. D’altra parte, se è vero che nell’Islam l’invito fondamentalista alla guerra santa suscita tanto rumore, e che l’Islam più moderato volentieri confonde fede e politica, è anche vero che analoghe forme integraliste, religiosamente aggressive, sono presenti nell’Occidente cristiano. Le abbiamo visto all’opera in questi giorni da noi e negli Usa e le abbiamo sentite affiorare nel discorso più applaudito di Bush, allorchè ha parlato di «crociata» e di «Giustizia infinita». Per quanto riguarda poi la mescolanza tra religione e politica è doveroso osservare che essa è tipica anche della storia cristiana, antica e recente, e che, se il papa ha tentato in ogni modo di non appiattire la posizione della chiesa cattolica su quella degli Usa, non è stato seguito dai vertici vaticani, che hanno giustificato l’intervento armato di Bush contro l’Afghanistan negli stessi termini con cui la diplomazia atlantica lo motiva. Tutto ciò che gli Stati Uniti faranno dobbiamo a priori approvarlo perché sono la culla della democrazia e perché ad essi dobbiamo la libertà dell’Europa dal nazismo e dal comunismo. Singolare rinuncia alle proprie responsabilità di uomini e di politici. Chi ama l’America deve aiutarla ad evitare scelte controproducenti e unilaterali. Troppo spesso, in nome della difesa dei propri interessi nazionali, essa ha tradito la democrazia e la libertà per imporre governi autoritari agli stati che si trovano nel raggio della sua influezza. Certo essa ha acquisito negli anni ’40-’50 grandi crediti nei confronti dell’Europa. Ora però dopo mezzo secolo di subalternità politico-militare possiamo dire che questo debito lo abbiamo saldato con gli interessi. Altre sono le ragioni per appoggiare un’azione di giustizia a favore degli Usa, non una guerra Usa contro chicchesia. Qualunque risposta statunitense alle stragi di settembre è sbagliata e va combattuta con intransigenza, si tratti di bombardamenti indiscriminati o di azioni tese alla punizione dei terroristi. È giusto osservare che la scelta migliore sarebbe il ricorso ad una corte di giustizia internazionale e ad un intervento di polizia altrettanto super partes, ma bisogna riconoscere che è preferibile un’azione mirata a distruggere le basi terroristiche, piuttosto che un’intervento militare massiccio che coinvolga i popoli. Se mai occorre operare affinchè tale azione sia limitata nel tempo e nello spazio, sia sottoposta al giudizio dell’Onu, sia condotta da un’alleanza rappresentativa della molteplicità culturale, religiosa e politica del mondo e venga accompagnata da un’adeguato sforzo diplomatico per porre fine allo stato di guerra permanente in cui si trova il Medioriente. Se è vero infatti che oggi dobbiamo «essere tutti americani», è anche vero che non lo siamo come partigiani dell’America, ma in quanto cittadini del mondo, Afghanistan compreso. Aldo Bodrato |