TEODICEA (4) – INTERMEZZO |
Una grazia smisurata |
Nell’articolo sul “male” del numero 283 si evidenzia come Dio, secondo il messaggio di Gesù nel discorso della montagna in Mt 5, 45 e secondo il parallelo discorso della pianura in Lc 6, 35, sia benevolo anche verso gli ingrati, i malvagi e gli ingiusti. Il che significa senza ombra di dubbio che nel decorso della vita storica non si dà alcuna retribuzione, né in positivo né in negativo. Gesù non ha mai mandato le malattie a nessuno, anzi ha fatto il contrario guarendo; non ha mai fatto morire nessuno, come pure non ha mai inflitto sofferenza nella forma di una esemplare punizione. Ha proclamato nel suo annuncio del Regno: «I paralitici camminano», ma non: «I sani s’azzoppano» a motivo delle loro colpe, così imparano! Ergo, Dio non infligge sofferenza, non fa ammalare e morire. Ma nell’eskaton finale cosa succederà veramente? La tradizione bi-millenaria del cristianesimo dà per scontato il fatto che la suddetta benevolenza verso i malvagi e gli ingrati cessi con la morte e/o con il giudizio finale (il mito della possibile conversione-perdono-assoluzione anche in punto di morte): ma perché Dio dovrebbe cambiare così drasticamente il suo atteggiamento? Prima un Padre amorevole e paziente e poi un giudice spietato? Il ricco Epulone. Lo stesso N.T. non è univoco e lineare al riguardo: ci sono parecchi passi che parlano della retribuzione finale e qualche episodio-racconto, come quello piuttosto brutale di Atti 5,1-11, con lo strammazzare a terra e lo spirare di Anania e Saffira, decisamente all’opposto del messaggio e dei comportamenti-atteggiamenti di Gesù (Luca qualche volta è a-cristico). Abbiamo pure, sempre in Lc 16,19-31, il ricco cattivo (Epulone) e il povero Lazzaro: da tutta una serie di indizi, – come l’inferno (“ade”), la fiamma che tortura, il grande abisso che separa i due luoghi, ecc., – si evince che è chiaramente una costruzione greca e lucana, con il caratteristico rovesciamento e contrappasso tipico di Luca, quale emerge dalla risposta di Abramo al ricco: «Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti». La stessa operazione Luca l’ha fatta nel cap. 6 con le quattro Beatitudini e i quattro “Guai” che stanno in perfetto parallelismo antitetico: chi ora ha fame e piange, sarà saziato e riderà; chi ora è sazio e ride, avrà fame e piangerà (sottinteso chiaramente, nell’altra vita in entrambi i casi). Per Gesù invece la sazietà consolante, ossia il capovolgimento della situazione di miseria, deve essere anzitutto e in primo luogo storica, senza escludere ovviamente quella escatologica: in entrambi i testi (ricco Epulone e Beatitudini) l'opera redazionale di Luca è a-cristica (cioè non pienamente in linea col messaggio di Gesù). Il giudizio di Mt 25. Ma limitiamoci e concentriamoci su Mt 25,31-46, con la grandiosa scena del giudizio finale basato sulle cosiddette “opere di misericordia”. La concezione a-simmetrica sopra menzionata (buono con tutti, compresi gli ingiusti e i cattivi) è certamente del Gesù storico; ma Mt 25 è del Gesù storico, oppure una rielaborazione della prima comunità cristiana unita ad una rilettura redazionale di Matteo stesso? Avanziamo un’ipotesi, che considera Mt 25 come una parabola dal punto di vista del genere letterario (non è proprio così sicuro, comunque il racconto viene immediatamente dopo una serie consecutiva di quattro parabole: quella del fico, del maggiordomo, delle dieci vergini e dei talenti, per cui ha tutta l’aria di essere una parabola a sua volta). Secondo il modello interpretativo di J. Dupont, la parabola vuol dare un’idea sola, mentre tutto il resto è contorno che serve a mettere in evidenza la “pointe”, ossia il culmine che rappresenta appunto l’idea centrale ed unica. Ad esempio nella parabola del Prodigo il culmine è costituito dalla festa (anello al dito, calzari ai piedi, vestito più bello, grande banchetto col vitello grasso) per il fatto che «questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (frase esattamente ripetuta alla fine nei confronti del fratello maggiore «perché questo tuo fratello era morto...»). Una volta che, grazie al contorno contestuale, si è individuato il culmine, il contorno stesso va relativizzato ed abbandonato perché non centrale ai fini del messaggio. Allo stesso modo il culmine di Mt 25 può essere visto unicamente in questo: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare...» e «Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare...», ossia l’identificazione del Figlio dell’uomo (di Gesù?, di Dio?) con i più poveri, bisognosi e disgraziati; l’azione nei confronti dell’affamato, in positivo o in negativo, è rivolta allo stesso Figlio dell’uomo. Tutto il resto dei dettagli che fanno da contorno (il venire nella gloria con tutti i suoi angeli, il sedersi sul trono, tutte le genti riunite e poi separate in pecore alla sua destra e capri alla sua sinistra, l’andare dei «maledetti» al supplizio e nel fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli, e i giusti «benedetti» che ricevono in eredità il Regno) può essere abbandonato come non costitutivo del messaggio che si vuole rivelare. Il soggetto iniziale è il Figlio dell’uomo che però, con un brusco e repentino passaggio, diviene subito improvvisamente il “re”, ed un re-figlio (perché dice: «Venite benedetti dal Padre mio...»). Mentre Gesù ha chiaramente usato il titolo di «Figlio dell’uomo», ha invece trovato indigesto il titolo di «re» applicato a se stesso. D’altra parte rientra nello stile di Matteo la trasformazione in senso regale di certe parabole: ad esempio «L’uomo che diede una grande cena...» di Lc 14,15-24 (parabola sugli invitati che non accettano), certamente più antico e probabilmente di Gesù stesso, diviene in Mt 22,1-14 «un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio» e che alla fine manda addirittura le sue truppe per sterminare gli invitati che avevano rifiutato (chiaramente posteriore, quasi certamente redazionale di Matteo). Luca è più originario di Matteo anche in un altro caso: «Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò...» (Mt 10,32-33) che in Lc 12,8-9 invece suona: «Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche “il Figlio dell’uomo” lo riconoscerà...», dove col passaggio repentino alla terza persona non risulta immediatamente evidente ed esplicita l’identificazione di Gesù col Figlio dell’uomo (detto certamente antichissimo, probabilmente di Gesù stesso: in questi ultimi casi menzionati Luca è fedele al Gesù storico, molto più di Matteo, e quindi non è a-cristico). Comunque sia dal punto di vista della storia delle forme e della redazione, ne conseguirebbe che Mt 25 affermerebbe “solo” l’identificazione del Figlio dell’uomo coi più bisognosi, poveri, disgraziati, ecc., e il conseguente giudizio basato sul comportamento nei loro confronti. Per Mt 25 quindi la giustificazione-salvezza non avviene per «sola fide» (con buona pace per la “Riforma”), ma semmai per “sola iustitia et caritate». Ma il giudizio di per sé, anche nel caso sia negativo, non significa automaticamente una retribuzione penalizzante e infernale! Potrebbe seguirne anche il perdono... Salvezza e nonviolenza. Se è vero che per il N.T. nella sua globalità (e in particolare in Paolo) la giustificazione è centro della fede cristiana, non è esattamente così per Gesù. Il primo sguardo di Gesù riguarda non il peccato degli altri, ma il dolore degli altri ed il loro bisogno. Proprio guardando al bisogno dell’uomo Gesù capisce cos’è “volontà di Dio”, la tematizza, la traduce in concetti chiari. Un pilastro centrale dell’annuncio di Gesù è la salvezza del bisognoso e della vittima, come pure uno dei nuclei del suo messaggio è il peccatore perdonato, e solo in questo senso giustificato. Come ha giustamente rivelato J.B. Metz, la salvezza delle vittime, prima possibilmente storica e poi escatologica, è molto più importante della giustificazione del peccatore. Purtroppo invece, soprattutto a partire da Agostino, la salvezza è stata concepita quasi esclusivamente come redenzione dal peccato e dalla colpa; al centro dell’interesse non c’è stata quella sofferenza e quella storia della sofferenza che costituiscono nel mondo una gran parte delle esperienze di dolore che gridano al cielo. La visione biblica della salvezza si richiama non solo e non tanto alla redenzione dal peccato e dalla colpa, bensì anzitutto ed in primo luogo alla salvezza dalla situazione di dolore dell’uomo. Con Agostino la domanda storico-escatologica riguardante la salvezza, soprattutto delle vittime, viene sostituita dalla domanda antropocentrica riguardante il peccato dell’uomo per trovare riassicurazione. Il cristianesimo originario sensibile alla sofferenza divenne un cristianesimo sensibile al peccato, preoccupato unicamente della redenzione del colpevole, oppure della sua dannazione eterna. Si diceva sopra che al giudizio potrebbe seguire il perdono: il perdono però non richiede il castigo, anzi lo esclude. Il perdono richiede semmai solo il ravvedimento del malvagio: è il ravvedimento che, nel suo prender coscienza del male compiuto, causa certamente sofferenza, rimorso, ed un cammino oneroso e sofferto per il raggiungimento di una relativa pace. Ma il passato non svanisce precipitando nella irrealtà (è questo il Purgatorio?), e i morti ci sono in ciò che erano: tale perdurante essente-stato non viene trasfigurato in una gloria che lo cancella come se non fosse successo niente. La stessa cosa vale delle vittime e degli sconfitti della storia, come pure dei dolori sovrumani patiti dagli innocenti; i nostri morti sono ciò che erano, immedesimati nel loro essenteci-stato (Heidegger): tale essenteci-stato (anche col suo carico di dolore) non è anteriore al loro futuro ed al loro advenire in Dio, per cui non viene né trasfigurato, né eliminato, né banalizzato neppure nella consolazione escatologica. Rimane certamente la possibilità che il ravvedimento non avvenga, ovvero la possibilità ultima di dire “no” al bene ed alla giustizia, la possibilità definitiva di dire “no” a Dio (è questo l’inferno?). Certo il criminale indurito, nel suo “no” definitivo e radicale a Dio, non è detto che se la passi poi troppo bene: ma per sua scelta irrevocabile, e non per una decisione divina volta ad infliggergli sofferenza e dolore eterno (rimane comunque impossibile la descrizione fenomenologica dell’altra vita). Ma non è detto che ne segua il castigo; in questo modo Dio manifesterebbe la sua benevolenza assoluta e incondizionata nel non colpire neppure l’estremo indurimento del cuore: ovvero la nonviolenza come una qualità portante dell’essere di Dio, e come sua ultima parola. Mauro Pedrazzoli |