GUERRA E TEOLOGIA CRISTIANA |
Conciliare l'inconciliabile |
Quella che segue è la parte finale della relazione di Giovanni Miccoli, dell’università di Trieste, dal titolo «La guerra nella storia e nella teologia cristiana: un problema a molteplici facce», al convegno organizzato da Biblia dal 12 al 14 ottobre scorsi a Torino su «Pace e guerra nella Bibbia e nel Corano». Piero Stefani concludendo i lavori ha fatto emergere tre filoni: 1) il nesso tra monoteismi e/o affermazione della verità (unica) e violenza, considerando che i monoteismi hanno comunque spesso convissuto; 2) le spinte universalistiche che caratterizzano cristianesimo e islam fin dalle origini e il sempre maggior rispetto nelle religioni per le differenze; 3) la prevalente attenzione nelle relazioni – a dispetto del titolo del convegno – più che alla Bibbia e al Corano alle loro interpretazioni, usi ed abusi (ma non poteva essere altrimenti). Inutile sottolineare l’attualità di un convegno programmato ben prima dell’attentato dell’11 settembre, e che forse anche per questo ha visto un’ampia partecipazione. [...] L’attuale crisi [...] mostra, mi sembra di poter dire, oscillazioni, incertezze, latenti divergenze nelle dichiarazioni e negli appelli via via succedutisi da parte del papa, dell’entourage curiale, come di episcopati e di singoli vescovi, per non parlare dei pubblicisti e dei teologi. Al no alla guerra (o alla “guerra indiscriminata”) di Giovanni Paolo II, che ripeteva del resto dichiarazioni già espresse più volte, si sono accompagnate voci e distinzioni di altro segno. L’idea che la guerra possa essere ancora strumento di giustizia, riproposta da più parti, ha trovato consensi nel mondo cattolico. Così, nello sforzo di conciliare l’inconciliabile, si è ripreso il consueto cammino delle distinzioni e delle sottodistinzioni, ponendo condizioni al diritto di guerra (purché non si tratti di vendetta, purché non coinvolga vittime innocenti, purché non vi sia sproporzione tra gli strumenti impiegati e i risultati conseguibili), condizioni palesemente possibili solo su di un piano verbale ed astratto, tali da salvaguardare il sistema dottrinale e morale di chi le enuncia, ma non in grado di condizionare lo svolgersi effettivo dei fenomeni in corso. Credo tuttavia che anche un’altra osservazione sia necessaria. Gli atti di terrorismo che hanno colpito l’America hanno scompaginato la linea che la Santa Sede era venuta elaborando in occasione della guerra del Golfo e della crisi jugoslava. La ferma richiesta avanzata allora di affidare agli organismi internazionali la soluzione di quei conflitti (sia attraverso la trattativa sia attraverso interventi circoscritti di polizia internazionale) si è rivelata improponibile (e comunque del tutto astratta) nelle nuove circostanze: sia per la crescente debolezza dell’Onu, sia perché direttamente colpiti sono gli Stati Uniti, del tutto indisponibili ad assoggettarsi a quella linea, sia perché i caratteri dell’attacco terroristico e la realtà stessa del terrorismo, privo di una connotazione istituzionale, impediscono di porre il problema nei termini precedentemente usati. Anche da ciò il riemergere di posizioni antiche, che presuppongono appunto gli Stati e i governi come interlocutori privilegiati. È tempo di concludere, non certo per trarre delle conclusioni, meno che mai per suggerire delle soluzioni, ma piuttosto per porre alcune questioni. L’attuale pontefice, si sa, ha posto con grande forza, in vista e durante il Giubileo dell’anno 2000, il problema delle colpe storiche di cui la Chiesa si è macchiata nei 2000 anni della sua storia. I fatti ricordati erano di grande portata, investivano il magistero in aspetti certo non secondari del suo insegnamento e della sua prassi, ne mettevano di fatto in discussione i caratteri fondanti le sue rivendicazioni e l’ampiezza di ambiti su cui aveva preteso di esercitarsi. Anche per questo, ripercorrendo il lungo insegnamento della Chiesa sulla guerra, le tortuosità e i pesanti condizionamenti che l’hanno caratterizzato e ancora almeno in parte lo caratterizzano, assistendo in questi giorni alla difficoltà, da parte dei vertici ecclesiastici, di dire parole che non rischiassero alla fin fine di risultare di mera copertura ai comportamenti del potere politico, salvandosi in qualche modo l’anima con subordinate impossibili, mi è sorta spontanea la domanda: può avere ancora un senso, può avere ancora qualche possibilità reale un magistero ecclesiastico in termini come questi, su un tema e in una situazione come questi? L’impotenza che esso rivela e ha rivelato dipende solo dalla sordità di chi ascolta o non anche dal fatto che il suo discorso risulta logorato in sé, nei presupposti che l’hanno a lungo sorretto, poco credibile negli elementi stessi che lo compongono? Non sono così evidenti, in qualche modo inevitabili, il suo periodico piegarsi e modellarsi sui grandi orientamenti collettivi, la sua ricerca di compromessi con istanze estranee e lontane dalla sua esigenza di dare “testimonianza alla verità”, non è così evidente tutto questo da suggerire piuttosto l’idea che un’altra linea sarebbe di gran lunga preferibile: una linea capace di rinunciare alla pretesa di porsi come maestra su tale tema e a ricercare nel vangelo legittimazione a comportamenti tutti legati al “secolo”? Credetemi: non è una domanda retorica, perché in realtà non me la sentirei, né avrei titolo per rispondere, né con un sì né con un no. È questione in primo luogo dei membri della Chiesa. Ma la domanda esiste. Che essa esista, possa esistere, richiama più fortemente la responsabilità individuale di tutti, credenti e non credenti, su tali questioni, sollecita la riflessione critica, l’approfondimento, sui perché tutto questo sta succedendo, sui perché del terrorismo, Giovanni Miccoli |