Editoriale |
Mentre la guerra dice le parole più chiare e più dure contro se stessa, mettendo in luce la sua sanguinaria inutilità e l’insormontabile contiguità col terrorismo, i vertici della Chiesa cattolica si dividono e si tormentano in una babele di distinguo, che li destina al non ascolto.
È noto l’episodio di fine settembre in cui, a seguito dei discorsi contro qualsiasi guerra, pronunciati da Giovanni Paolo II in viaggio tra Kazakhistan e Armenia, il suo capo ufficio stampa, Navarro Valls, lo contraddiceva rispolverando la teoria della guerra giusta a beneficio dei giornalisti inglesi e americani. E altrettanto nota è la posizione assunta dal cardinal Ruini, vicario di Roma e presidente della Cei, che rilanciava le tesi dell’interpretazione di Valls e non quelle del papa, ammettendo il diritto-dovere del governo statunitense a combattere il terrorismo con le armi, fatta salva la vita dei civili innocenti e la moderazione nel tempo e nei modi della risposta di guerra. Né, d’altra parte, risultava davvero profetica la più avvertita e sfumata presa di posizione del cardinal Martini secondo cui «il terrorismo internazionale va combattuto non solo con la forza delle armi, da mantenersi sempre il più possibile limitato e alieno da rappresaglie indiscriminate, ma anche rimuovendo le motivazioni e i focolai che lo possono alimentare, agendo con ragionevole rispetto della complessità dei dati, senza facili semplificazioni e affrettate creazioni di capri espiatori. La violenza e il terrorismo vanno isolati e disarmati con energia e determinazione, ma proprio per questo non devono essere confusi con contesti culturali, religiosi , etnici più ampi» Sono parole che sono risuonate con accenti di preghiera anche alla chiusura del Sinodo («La pace è minacciata dal terrorismo e resa fragile in tutto il mondo dalla dilagante paura delle ritorsioni e delle vendette»), ma che restano generiche e difensive, che neppure lontanamente ricordano il coraggio del Concilio. Giovanni Miccoli, nelle pagine conclusive della sua relazione al convegno su «Pace e guerra nella Bibbia e nel Corano», ha cercato di dare la sua interpretazione sulle ragioni di questa ondivaga prudenza. Noi le condividiamo e le riportiamo per intero a p. 3, limitandoci ad integrarle qui con quanto, in altra e più limitata prospettiva, hanno scritto i maggiori teologi moralisti italiani. «Nella Chiesa cattolica il momento storico di una profonda revisione del tradizionale rapporto giustizia-guerra è stato il Vaticano II, la cui posizione può essere così sintetizzata: si abbandona la teoria della cosiddetta guerra giusta (la guerra è sempre un male); esaurito ogni altro stumento, si tollera, ma resta sempre un male, il ricorso alla forza solo nel caso di legittima difesa (autodifesa), mai comunque da attuarsi con armi atomiche, batteriologiche e chimiche (la loro condanna è totale) o anche con le armi convenzionali che provocano distruzioni indiscriminate. L’esperienza drammatica dimostra abbondantemente che le guerre moderne non soddisfano tali condizioni, sono sproporzionate a qualsiasi causa giusta. L’uso della difesa si traduce facilmente (o fatalmente) in abuso. In breve, il collegamento giustizia-guerra non regge più, se mai ha retto. Certo non basta dire no alla guerra. È necessario rendere praticabili vie alternative. In questa prospettiva si comprende l’insistenza del pensiero cattolico, che da Pio XII a Giovanni Paolo II, indica la necessità di istituire un’autorità internazionale competente e, quindi, l’urgenza di mettere l’Onu in grado di operare per il riconoscimento, la difesa e la riparazione dei diritti tra i popoli» (“Avvenire” del 28 settembre). [ ] |