PERUGIA-ASSISI, LA MARCIA DI CAPITINI
Non è il festival dell’Unità

Pace, amore, libertà sono espressioni scorciatoia che tutti usano. È destino comune alle parole più grandi e ai grandi pensieri di cui sono il riflesso gravitare attorno alla più frusta retorica – solo il modesto, fatte salve scarse eccezioni, è immune dal rischio della strumentalizzazione. Non per questo la loro grandezza ne esce sminuita o compromessa, dal momento che, a ben guardare, tale grandezza non risiede in un termine ma nel modo in cui un uomo lo fa proprio e lo vive e, quasi per necessaria conseguenza, nel modo in cui riesce ad esprimerlo.

La centralità dell’idea di pace e la concezione di un agire nonviolento in Capitini prendono corpo insieme ad un ammirevole rigoglio linguistico e a precise innovazioni terminologiche. Quando Capitini intona la parola «pace» sappiamo (chi lo ha letto lo sa) quale passione umana, sociale, filosofico-religiosa, politica ed anche strettamente artistica dietro ad essa si celi. Di conseguenza, quanti partecipano alla Marcia della pace, o la criticano, o la nominano, non dovrebbero mai dimenticare che il fondatore di questa Marcia è Aldo Capitini, né ignorare le motivazioni che lo hanno spinto a crearla, e nemmeno farebbero male ad affacciarsi alla lettura di qualche suo libro.

Alla base della Marcia, come dell’intero pensiero capitiniano, è l’idea di apertura. Questo risulta di per sé sufficiente ad inficiare qualsiasi tentativo di appropriazione messo in atto da una qualsivoglia parte politica. La Perugia-Assisi non è un Festival dell’Unità in movimento, non viene in appoggio a qualche partito, e non rappresenta la voce ufficiale di una posizione parlamentare; prendervi parte con le insegne di un gruppo politico chiama in causa, come minimo, una mancanza di riguardo nei confronti del suo ideatore: «con i dirigenti le condizioni erano chiare: la Marcia non avrebbe avuto nessun segno di partito». Ancor meno, e sottolinearlo è superfluo, dovrebbe essere intesa come un’occasione per «tirar ceffoni» (quand’anche metaforici) ad altri partecipanti o per contestarli, persino nel caso in cui la loro ipocrisia fosse accertata e manifesta.

Non è, a questo proposito, un demerito da sottacere quello di cui i partiti di sinistra si sono resi responsabili in Italia dal dopoguerra ad oggi: tentare di riservare il monopolio della pace all’opposizione parlamentare, introdurre un’equazione assai pericolosa, e strutturalmente violenta, in base alla quale ci si può credere uomini di pace solo se il proprio voto tende in una certa direzione; ne è derivato un pacifismo troppo sovente guercio, che vede e denuncia – ben a ragione – gli orrori delle guerre statunitensi in Afghanistan o in Kosovo, ma resta in prevalenza muto di fronte alle efferatezze sovietiche in Cecenia, che indice giustissime veglie di preghiera a favore dei condannati alla pena capitale negli Usa, ma è incline a dimenticare i condannati a morte cubani, che stigmatizza e tenta di sabotare gli stupidi esperimenti nucleari francesi, rimanendo inerte di fronte ad analoghi esperimenti cinesi.

D’altro canto, da questa Marcia l’opposta fazione politica non ne è certo uscita con i crismi di una maggiore statura politica, dal momento che, una volta redarguiti gli avversari colpevoli di strumentalizzare, ha avvertito il bisogno di indire quella che, a dispetto delle dichiarazioni ufficiali, ha tutta l’aria di presentarsi come una superflua contromanifestazione: con l’evidente scopo di poter innalzare, indisturbata e con il dovuto agio, altri vessilli e slogan simmetrici ed ugualmente guerci.

Il punto è che non bisognerebbe andare alla Marcia della pace come il beau monde va al 
torneo di tennis di Montecarlo, ovvero con il proposito di spiccare tra la folla e poter dire in seguito «c’ero anch’io», e nelle prime file magari. Sarebbe facile, in special modo in una giornata di sole come quella del 14 ottobre scorso, calcarsi un berretto in testa, inforcare un paio di lenti scure e confondersi in una massa strabocchevole; soprattutto sarebbe più consono allo spirito capitiniano.

Esaltare la diversità.

Sembra però un esercizio di stile abbastanza vacuo sostenere che a marce come quest’ultima Gandhi non si sarebbe nemmeno fatto vedere, o affermazioni di analogo tenore. In primo luogo perché la Marcia può, e anzi dovrebbe, essere vista come occasione di individuale riflessione e ripensamento: una sorta di piccolo pellegrinaggio alla Mecca, un minimo sacrificio di sé (una camminata che comporta una lieve fatica fisica), che induca all’attitudine del fare, piuttosto che a dissipare ogni energia nello spigolare giustificazioni del perché non si è fatto. Ed in secondo, e decisivo, luogo perché l’idea capitiniana di fondo consisteva precisamente nel proponimento di vincere l’alterigia del distacco, di adottare il metodo di Francesco e Gesù, che conduce «a parlare con i saraceni» e a stare «con i peccatori», anziché sterminarli o giudicarli. La pace, per Capitini, non può prescindere da una, quantomeno iniziale, esaltazione delle differenze: «gl’italiani pensano che nell’assoluto, nelle cose serie (religione, politica, scuola) debba esserci uniformità, e la diversità sia cosa degl’individui contingenti e del folclore. Per questo accusano di eretico, di sovversivo, di diseducatore, chi è “diverso”. Non sono abituati a collaborare nelle cose serie con i  “diversi”. La Marcia rappresenta lo spazio in cui ciascuno reca con sé sia il proprio personale patrimonio di idee, sia la disposizione spirituale per mezzo della quale si accetta di discuterlo fino alla possibilità di mutarlo radicalmente.

Se si cerca poi, una volta di più, di prendere Capitini alla lettera – e di solito i grandi pensatori non domandano altro –, si può credere che la definizione da lui coniata, Marcia della pace, non sia in nulla casuale. Alla Marcia infatti non spetta solo il compito di plasmare la consapevolezza che occorre svolgere un intenso lavoro per la pace, che conduca alla pace, poiché essa è anche, dovrebbe essere, effettivo momento di pace, anticipo, limitato nel tempo, di una definitiva pace futura. L’idea di festa ritorna in Capitini come segno e promessa di una duratura pacificazione a venire, e il suo adoperarsi per la Marcia si radicava, probabilmente, anche nell’augurio che da incontri di questo tipo potesse derivare un’incantevole forma di contagio: quello della nonviolenza e della comprensione reciproca. Ma per cedere realmente ad una simile malattia, e per tentare di diffonderla, occorre innanzi tutto scardinare le difese immunitarie erette dalla violenza (un’apparente salute) presente in ciascuno di noi: di queste difese slogan e frasi fatte costituiscono il principale collante.

Massimiliano Fortuna
 


 
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