LETTERE
Piove, Bush ladro!
Ho letto con voracità gli interventi che la “rete” ha la premura di farmi arrivare qui in Messico e che si sono infittiti dopo i fatti di Genova e i tremendi attentati dell’11 settembre in Usa.

A leggerne alcuni mi pare di essere ritornato ai tempi in cui era di moda l’espressione «Piove, governo ladro!», ed era anche l’epoca della guerra fredda e dei blocchi; bisognava scegliere da che parte stare, e per chi era di sinistra o di destra qualsiasi pretesto era buono per inveire contro l’avversario e santificare il proprio campo.

Nutro nei confronti degli statunitensi (con i quali qui sono ormai in contatto quasi quotidiano) un crescente complesso di superiorità, corroborato non solo dalla dimensione culturale, ma anche, negli ultimi tempi, da quella economica.

Per motivi che altri su queste pagine sanno argomentare assai meglio di me, pur sentendomi personalmente esposto alla minaccia del terrorismo, sono assai più costernato dalla minaccia di bombardamenti su villaggi afghani in vendetta delle sei o settemila vittime di NewYork, Washington e Pittsburgh.

Tuttavia non sono disposto a mettere sullo stesso piano «la superbia occidentale, e l’odio di risposta, ideologizzato e armato da un uso politico dell’Islam», come invece ho trovato scritto in uno, seppur tra i più argomentati e moderati, degli interventi che mi sono giunti.

Per non parlare poi della, per me delirante, lettera della famiglia Fo, che definisce la violenza degli esecutori del massacro «figlia legittima della cultura della violenza, della fame, e dello sfruttamento umano», cultura, s’intende, americana! Di legittimo in un atto terroristico non c’è proprio nulla, così come non trovo legittima la qualunquista relazione causa/effetto CocaCola/Bin Laden.

A leggere e rileggere i molti interventi (con le sole eccezioni dell’articolo di Terzani e del fondo del foglio), mi sono sentito ritrascinato indietro all’epoca della guerra fredda, quando ci turavamo occhi, naso e orecchie, perché non si potevano criticare i “compagni” dell’Urss. E si ingoiavano i gulag, l’invasione dell’Afghanistan, l’esplosione di Chernobil, senza proferir verbo per non indebolire la sinistra.

Ora è di moda l’anti-global e si deve criticare quello che è global, autocensurandosi l’orrore per le reciproche pulizie etniche di serbi e albanesi, lo sterminio dei curdi ad opera di turchi e iraniani, la persecuzione sessuale delle donne afghane da parte dei talebani.

Mi piacerebbe trovare, nella sinistra che frequento, una esigenza di indipendenza e di equanimità nel giudizio, che superi la logica, ormai antistorica, dei blocchi. Dissentiamo dunque fortemente contro progetti d’invasione dell’Afghanistan, ma con uguale forza gridiamo contro le stragi dei fondamentalisti in Algeria, contro la dittatura di Kim Il Sung in Corea del Nord, contro la guerra perenne nel Corno d’Africa.

E poi, oltre alla protesta giusta ed equilibrata nei modi e nelle direzioni, mi pare dobbiamo porci d’impegno per non essere solo “anti-statunitensi” a parole, ma agire rafforzando l’indipendenza e l’importanza dell’Europa.

Molti segnali, sul continente americano da cui scrivo, indicano che gli Usa cominciano a temere l’Unione Europea, che non si presenta nelle vesti di una potenza ostile, come l’Urss della guerra fredda, né di un nemico dichiarato, come il fondamentalismo islamico.

È anzi un alleato, che diviene temibilissimo concorrente, e che – tra qualche mese – disporrà di un’arma, capace di minacciare la più formidabile arma dell’arsenale statunitense: l’euro contro il dollaro! Spetta anche alla sinistra italiana, e dunque anche a noi, dare a questa nuova potenza economica un pensiero all’altezza della sua posizione.

Non sono solo le cifre a porre l’Unione Europea in questo incomodo ruolo di seconda potenza mondiale. Sono anche (e io direi soprattutto!) le aspettative di centinaia e migliaia di esseri umani, delle più svariate razze e religioni, semplicemente poveri, ma anche diseredati nel loro paese, di qualsiasi speranza in una vita migliore, che l’hanno eletta come migliore della propria terra di origine, e che, senza nemmeno poter bussare alla nostra porta, ci vengono a vivere. Non è solo il Pil per abitante che fa dell’Unione Europea la meta di un cammino sempre penoso e umiliante, e spesso addirittura mortale; perché sennò l’Arabia Saudita e il Qatar avrebbero ben più di noi problemi di immigrazione clandestina. Oltre ai soldi ci devono essere valori nella nostra cultura occidentale, che sono riconosciuti da tanta altra gente così diversa.

Una visione politica solo anti-americana è troppo “piccina” per questa nuova realtà; siamo talmente occupati ad essere anti-statunitensi che non abbiamo tempo per elaborare pro-cosa siamo, che politica estera vorremmo attuare noi europei, come ci posizioniamo nel villaggio sempre più globale.

Proviamo invece a chiederci: cosa vorremmo che facesse l’Europa il giorno in cui i curdi, minacciati di sterminio dai turchi e dagli iraniani, non andranno a chiedere l’intervento dei caccia-bombardieri americani, ma busseranno alla porta del presidente Prodi per essere salvati?

Se abbiamo anche solo una risposta concreta, suscettibile di ottenere la maggioranza al parlamento europeo, avremo fatto un altro passo avanti verso la pace.

Stefano Casadio

dal Messico, 7 ottobre 2001.


 
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