PELLEGRINO A 15 ANNI DALLA MORTE |
Un profeta come vescovo |
Il suo biglietto da visita Michele Pellegrino lo presentò al Vaticano II il 18-10-1965, a pochi giorni dalla nomina a vescovo, prima di prendere la guida della diocesi di Torino. Il Concilio discuteva la Gaudium et spes e Pellegrino, come ex professore universitario, parlò del «diritto alla libertà di ricerca in campo storico e teologico dei laici e del clero». «Un elogio all’intelligenza», scrisse Le Monde.
Libertà e rispetto della dignità della persona, sempre e comunque. Ecco il primo filo conduttore del suo episcopato, intriso dalla fede nel primato di Cristo e dall’urgenza della sua sequela. Ma accanto alla libertà, non ad essa subordinate, vanno poste altre due linee guida: l’unità della chiesa nella corresponsabilità e l’attenzione alla realtà sociale e culturale con particolare riguardo alle classi povere. Il tutto a testimonianza della verità del vangelo. Nei dodici anni dell’episcopato di Pellegrino queste esigenze si sono intrecciate in vari modi non sempre esenti da conflitti, ma sempre capaci di sollecitare chiesa e società alla riscoperta delle loro identità. Prima cura pastorale di Pellegrino fu l’approfondimento della sua conoscenza della diocesi e della città e la presentazione a tutti della nuova immagine di chiesa emersa dal Concilio. Una chiesa che non si chiude su sé stessa, ma si apre al dialogo col mondo; che non si identifica con la gerarchia ma, come “popolo di Dio”, riconosce il ruolo attivo dei laici: che non enfatizza l’obbedienza, ma si fonda sulla comunione. A questo fine egli valorizzò il tema della «chiesa locale» e della corresponsabilità, promuovendo, fin dal 1966, la creazione di organi consultivi, tra cui il Consiglio pastorale, presieduto dal vescovo, formato da preti, religiosi e laici, eletti dalla base, e incaricato di redigere il piano pastorale. È qui che si manifestò appieno la volontà di Pellegrino di promuovere la libera partecipazione dei credenti alla vita della chiesa e di promuoverla in spirito di collaborazione ed è qui che prese forma compiuta la «scelta preferenziale dei poveri» (Lettera pastorale “Camminare insieme”, 1972). «Povertà, libertà, fraternità»: le tre parole guida del testo, nato da un’ampia consultazione diocesana, approvato a maggioranza dal Consiglio pastorale e pubblicato dopo un’ultima revisione del vescovo, riassumono il senso dell’episcopato di Pellegrino, sono rivolte a credenti e non credenti e vanno lette in crescita. Innanzitutto la scelta della povertà, come singoli e come chiesa, comporta per ogni cristiano e per la sua comunità una collocazione che non li veda schierati coi potenti, ma coi deboli. Tale collocazione restituisce loro la forza profetica del vangelo e la libertà necessaria per il suo annuncio, ma al tempo stesso comporta un più forte senso di solidarietà con gli ultimi e con i fratelli nella fede. In secondo luogo, povertà e libertà sono indispensabili perché nasca la fraternità nella vita degli uomini e dell’Ecclesia viatrix, una vita che non miri al successo e alla fortuna individuale, che non abbia come fine l’affermazione visibile e mondana del proprio potere, ma si prepari alla realizzazione di un «Regno» aperto a «tutti gli uomini di buona volontà», cioè a «tutti coloro che Dio ama». È forse per difendere tutto ciò che Pellegrino, dimettendosi nel 1977 anche per forti pressioni curiali, accolse la richiesta del Consiglio pastorale di avere un ruolo, almeno formale, nella sua successione e ottenne da Roma che fosse concessa un’udienza a una delegazione della diocesi. Ultimo atto pastorale di un vescovo che ha tentato di «fare strada ai poveri» e di «dare voce a chi voce non ha». Aldo Bodrato |