QUELLO CHE I NONVIOLENTI NON CAPISCONO |
La bella guerra |
Ai nonviolenti, spesso anche ai più acuti e felicemente ricettivi fra loro, fa in genere difetto una dolorosa ed abissale consapevolezza: quella dell’irriducibile fascino che la guerra genera e conduce con sé. Le parole d’ordine a cui le guerre rispondono non sono soltanto morte e distruzione – a dibattersi in esse è anche un contorto principio vitale, non semplicemente una lineare pulsione di annullamento. Il complesso dottrinale di ispirazione nonviolenta, e ancor più limpidamente l’ala dei movimenti, si staglia sovente in un cielo culturale al cui fondo brilla la stella polare dell’analisi marxistica dei rapporti di produzione. In essa l’origine del confliggere si proietterà sempre, ed essenzialmente, nell’orizzonte del potere economico, e il sopruso si ridurrà infallibilmente ad essere il sopruso di un ricco, che vuole rimanere tale, ai danni dei poveri che lo circondano. A scanso di equivoci: la segreta, o palese, corrispondenza che congiunge violenza e dominio economico è di certo un indispensabile filo rosso, capace di illuminarci su gran parte dei meccanismi bellici. Ma, verosimilmente, non su tutto. All’analisi nonviolenta fa di solito capo un’opzione fondamentalmente ottimistica della natura umana, che attinge molte delle sue risorse da un serbatoio in senso lato illuministico. Le “storture” del mondo corrispondono qui a cause che la buona volontà umana e l’uso incorrotto della razionalità saranno quasi sempre in grado di rimuovere. Il compiacimento di infliggere il male per il male, e non per desiderio di arricchirsi, la demonizzazione dell’“altro” non dettata dalla difesa egoistica dei propri privilegi, ma da una sorta di congenita e radicale ottusità umana, che a nessuna, pur avanzata, cristallizzazione culturale sarà forse dato realmente rimuovere, la suggestione della violenza in quanto spasmo ludico fine a sé stesso sono ipotesi di indagine che non di rado al nonviolento rimangono estranee. Qualcosa tende a restare celato, un corpo opaco, un boccone amaro che a nessuna opinione pubblica e a nessuna medietà culturale sarà mai possibile far digerire: la pura ebbrezza che può liberarsi nell’atto dell’uccidere, la sensazione di potersi avvertire parte della vita soltanto sottraendo qualcos’altro allo spazio dell’esistenza, come anche il rischio esaltante di costeggiare la morte e, sfidandola, uscirne indenni, posseduti da quel contrastante sentimento che congiunge, in indistricabile ambiguità, «l’esaltazione del cacciatore e l’angoscia della preda» – così lo descrive Jünger nelle Tempeste d’acciaio, un libro, questo, che contiene alcune pagine che a qualsiasi uomo di pace occorrerebbe meditare a lungo; come a lungo, ad esempio, si potrebbe riflettere sulla sconcertante amoralità che emana dalla prosa sorniona di De Quincey in L’assassinio come una delle belle arti, o, ancora, soffermarsi con attenzione su di un brevissimo, e folgorante, scritto di Freud, I delinquenti per senso di colpa, nel quale prende corpo l’idea che funzione del delitto sia attenuare la colpa, non innescarla. In genere, i nonviolenti sembrerebbero scarsamente avvezzi a sviluppare un lato genialmente demonico – quella medesima genialità che permetteva a Dostoevskij di installarsi nelle stesse contorsioni interne di un cervello criminale e non semplicemente di alludervi in distanza; il fautore della nonviolenza, in linea di massima, si direbbe invece poco incline a conradiani, o coppoliani, viaggi al fondo del «cuore di tenebra» della mente umana. Ma per comprendere profondamente quell’abominio immane che la violenza è, e per non cessare mai di limarne la devastante presenza nella nostra vita, occorre svelare senza remore la sua sotterranea malia e lasciarla, per così dire, agire dentro di sé. Alla guerra appartiene un raggelante sguardo di Medusa, è questa la sua forza più inscalfibile: solo gli uomini capaci di riconoscere tale enigmatica seduzione sono davvero in grado di sottrarsi al suo potere annichilente. Massimiliano Fortuna |