ETICA E POLITICA
La ragione delle ragioni contro la guerra

La ragione delle ragioni contro ogni guerra, e dunque anche questa, è che non si può uccidere persone umane.

Se vogliamo non essere uccisi, noi e i nostri cari, i nostri concittadini, dobbiamo non uccidere nessuno.

Una legge vale soltanto se vale per tutti. Dunque, il «non uccidere» non è soltanto un precetto religioso, è il fondamento di tutta la convivenza politica, che oggi è planetaria, non più regionale, locale.

Qualcuno dice: il tuo è fondamentalismo pacifista. Accetto, ma non nel senso totalitario e violento che ha oggi il termine fondamentalismo. Accetto nel senso che il “fondamento” della convivenza tra esseri umani è il rifiuto di decidere una controversia con l’uccidere. «Non uccidere» è il fondamento di tutto. È il tabù negativo, necessario ad aprire la via delle soluzioni positive. Non si pensa e non si cerca la soluzione vitale dei conflitti fino a quando non ci si proibisce assolutamente la soluzione mortale. Se leggi la Salmodia di Zagorsk, di David Maria Turoldo, trovi cantato in modo superlativo e profetico questo fondamento necessario alla vita come il respiro.

Ma, si è sempre detto – persino ripetutamente nella bibbia ebraica – che chi uccide perde il 
diritto alla vita.

Eppure, nella stessa bibbia ebraica, Dio protegge la vita di Caino (Genesi 4,15). Dio ama il peccatore e non vuole la sua morte ma che si converta e viva (Ezechiele 33,11). Per non dire dell’evoluzione della legge ebraica nel vangelo di Gesù.

Non soltanto sono necessarie prove pubbliche assolutamente inoppugnabili per ritenere colpevole di omicidio colui che condanniamo a morte (col potere giudiziario, o con la guerra, che però sempre sicuramente uccide in massima parte innocenti), ma soprattutto l’evoluzione morale umana esige che si riconosca che una persona umana non si riduce mai ai suoi atti, è sempre superiore alle proprie azioni, anche le più colpevoli, perciò non va mai soppressa.

Certamente può essere anche ucciso (se davvero non c’è nessun altro mezzo per fermarlo) chi sta in quel momento per uccidere altri. Colui che sta per essere ucciso può anche rinunciare a questa difesa, se sente, come chi è arrivato davvero alla nonviolenza, maggiore ripugnanza ad uccidere che a morire (lo dice Simone Weil), perché sa che si nega e si deforma la propria umanità non nel morire ma nell’uccidere. Ma senza dubbio bisogna difendere altri, anche al costo estremo di uccidere l’omicida potenziale nel momento immediato in cui sta per uccidere. In quel momento, e non dopo, quando non è più in grado di offendere, altrimenti è vendetta, non è difesa. E la vendetta non toglie alcun male, ma soltanto e sempre aggiunge male a male.

Uccidere in anticipo?

Si può forse uccidere in anticipo chi si teme o si sospetta che cercherà di uccidere altri? Nessuna legge civile lo permette. Attribuirsi un tale potere sovrastante distrugge ogni convivenza, permette ogni abuso, mette tutti in pericolo. La «ragion di stato», la «licenza di uccidere» dei vari servizi segreti, il potere militare se lo permettono, ma basta avere un po’ di ragione e di pietà umana per vederne l’orrore e la forza distruttiva di ogni rapporto sociale umano. Questa licenza scatena la gara a chi uccide per primo. Ogni tentativo compiuto dal diritto per addolcire la durezza dei rapporti va perduto. Ogni sicurezza è diminuita.

Ma se si sa con certezza che uno sta preparando l’uccisione di altri? Allora il potere pubblico deve arrestarlo, esibendo subito le prove in un processo legale, con tutte le garanzie, e non può semplicemente ucciderlo, pena quel degrado sociale che abbiamo appena visto.

Ma dove, come nella società internazionale di oggi, non c’è alcun potere pubblico autorizzato e riconosciuto, e vige ancora di fatto, contro i patti sottoscritti, l’anarchia e la legge della forza, può forse, in questo caso, chi ne ha la forza e i mezzi punire preventivamente, anche con la morte, chi prepara omicidi? Il caso è serio, senza dubbio. La risposta non è facile. 

Direi almeno questo: ha una legittima competenza ad agire chi opera per fare evolvere questa situazione selvaggia nella direzione di una organizzazione più civile e legale della convivenza tra i popoli, e non mantiene soltanto, a vantaggio della propria maggiore forza, tale situazione di assenza di legge. Se gli Usa lavorassero per l’autorità dell’Onu, per il tribunale penale internazionale, per la giustizia economica planetaria, per la salvaguardia dell’ambiente naturale di tutta l’umanità, allora la loro azione di necessità contro i crimini internazionali sarebbe credibile e scusabile. Ma davvero non è questa la loro linea. 

Né dovere né diritto.

Intanto, non è un “dovere” uccidere, neppure nel caso della legittima difesa. Gandhi l’aveva così definito, ma Jean-Marie Muller corregge Gandhi: il dovere è sempre di non uccidere, quella circostanza tragica è una necessità, e dove c’è necessità non c’è atto morale, dunque non c’è un dovere. Il dovere è difendere, la necessità – ove occorra davvero quel caso estremo – è uccidere. Uccidere, dunque, non è mai dovere e tanto meno diritto. Gli eserciti, invece, se ne fanno dovere e diritto e vanto.

Poi, la legittima difesa omicida deve essere vissuta come un fallimento triste e vergognoso delle relazioni umane, senza alcuna soddisfazione e gloria. E colui la cui vita è stata salvata mediante la morte di un altro, pur colpevole di minaccia mortale in atto, deve sentirsi in debito verso colui che è stato ucciso, di cui nessuno può giudicare le intime responsabilità, sconvolgimenti, annebbiamenti, malvagità. 

Il male del mondo non è separabile col coltello, in modo da farcene davvero puri e innocenti, e attribuirlo tutto agli altri, fossero anche i più chiaramente colpevoli. Se qualcuno fa del male, anch’io, per le vie misteriose della compartecipazione e interdipendenza umana, ne sono in parte responsabile. 

Basta questo a rendere gli apparati di morte che le società umane organizzate, anche le più “civili”, non sanno ancora superare (tribunali, prigioni, capestri, polizie, armi, torture, eserciti, guerre), aspetti tristi e “osceni” (cioè, da mettere “fuori scena”), non assolutamente da esibire, da celebrare e di cui vantarsi. E invece vedi che gli stati si identificano ancora gloriosamente negli eserciti e nelle armi: parate militari nelle feste nazionali, retoriche patriottarde (anche in questi brutti giorni) e via tristemente dicendo. Follie primitive delle nostre “civiltà” ancora pre-umane. Molta pena e tristezza e vergogna per tanta ostentata mancanza di pudore e di sensibilità. 

Alcune di queste cose saranno ancora per lungo tempo necessarie per convivere alla meno 
peggio. Lo riconosce anche Gandhi per la polizia armata, i tribunali e le prigioni, ma poi dice che la polizia deve essere educata alla nonviolenza (c’è una proposta di legge in questo senso, in Italia, in questo momento, dopo le violenze poliziesche di luglio a Genova, firmata da molti, tra cui anche Occhetto e Violante).

Liberarsi dalla guerra è possibile.

Ma la guerra è la peggiore di tutte queste tristezze e vergogne, ed è la più prossima a poter 
essere eliminata. Non è facile, ma è possibile. Il ’900 è stato il secolo più sanguinoso, ma anche il secolo che più di tutti gli altri ha prodotto dei passi verso la liberazione dalla guerra, nella cultura, nella morale, nella legge internazionale (Onu), nelle esperienze delle molte lotte nonviolente efficaci (ho raccolto in una bibliografia oltre cento gruppi di opere su casi storici di difesa senza guerra).

Non è impossibile la liberazione storica dalla violenza ufficialmente organizzata. Resteranno casi di violenza privata, da prevenire e rintuzzare, senza accrescere la violenza. Ma almeno non si mantengano istituzioni sociali violente. Non è impossibile questa liberazione. La natura umana non è fatalmente violenta. Dipende molto dalla cultura in cui ciascuno vive, dai valori privilegiati in una data società. L’antropologia dimostra che esistono società nonviolente, su scala minore. Sta a noi realizzare questa civiltà su ogni scala. Il modello sociale vigente è molto violento, ma non è l’unico possibile. L’apporto delle donne può migliorarlo molto. Tutto ciò è difficile, ma necessario. Primo: non rassegnarsi.

In conclusione, mi pare chiaro che o la politica si emancipa progressivamente dalla guerra – dalla “propria” guerra, prima che da quella altrui – oppure perde tempo e prepara altre tragedie colpevoli. La guerra (anche questa in corso) è il risultato di tempo perso, di errori compiuti, di imprevidenza. Gorbaciov ha scritto, su «La Stampa», 3 novembre, «Il decennio perduto»: dopo la fine della guerra fredda si poteva “istituire” la pace e invece si è “re-istituita” la guerra, producendo questo decennio orribile.

La colpa non è soltanto degli “stati canaglia” come si dice comodamente, ma anche dei potenti che non intendono sottomettersi ad una legge universale: vedi il rifiuto da parte degli Usa del tribunale internazionale, dei protocolli di Kyoto, del primato dell’Onu, ecc.; vedi il rifiuto delle grandi corporation transnazionali di sottrarre alimenti e medicinali al criterio unico e assoluto del mercato, contro i primari bisogni e diritti umani. I più forti e potenti danno il cattivo esempio ai più incivili e violenti, e li usano senza scrupoli fin quando fa loro comodo, poi li accusano di tutto e li caricano di bombe.

Ahimè, il mondo è in cattive mani, non è soltanto minacciato dai “cattivi” di turno.

Con tutto il giusto realismo, con tutto il senso della difficoltà e della necessità di decidere, con tutti i sani dubbi critici su ciò che a ciascuno di noi sembra più plausibile e giusto, credo che dobbiamo restare critici dell’esistente e costruttivi e creativi, e perciò anche – ne sono convinto – molto diffidenti delle ragioni portate dai più potenti. Ragioni che hanno molti modi forti per farsi sentire e così sopraffanno le ragioni contrarie. La potenza ottunde l’intelligenza e riduce l’onestà, perché il potere più è forte, più teme per sé, più piega le ragioni nel senso del proprio mantenimento, a tutti i costi, anche a spese altrui.

Nella storia, la forza e lo stato più potente sono sempre stati quelli che hanno fatto più male e inflitto più dolori ai poveri e ai piccoli. I benefici dei potenti sono stati solo dei “sottoprodotti” dei loro scopi. Così è anche oggi. Non è il potere sugli altri che promuove l’umanità, ma il potere di ognuno su di sé, sulle proprie tendenze deteriori. Questi “giusti” ci sono, nascosti, e sono loro che tengono ancora in piedi il mondo, nonostante i potenti.

Enrico Peyretti


 
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