GOVERNO BERLUSCONI
Due questioni di legittimità
Appunti a cura di Enrico Peyretti di un incontro organizzato a Torino, il 12 dicembre 2001, dal Centro Studi Sereno Regis, dal Comitato torinese per la Costituzione e dal Mir-Mn, su 1) la partecipazione dell’Italia a una guerra dai contorni mal definiti; 2) la mancata soluzione del conflitto di interessi nella composizione del governo.

Livio Pepino (presidente di Magistratura Democratica).

1) Il documento dei giuristi democratici contro la guerra (Il no del diritto, «il manifesto», 10 novembre) è il terzo appello dal 1991. La situazione peggiora. È stata una guerra senza avversario, dell’unica potenza e di uno schieramento attorno ad essa. Logica di un mondo monopolare, senza alternative. Guerra senza un limite opposto. Distrutto l’Afghanistan, cambiato regime. L’esito era scontato.

Con questa guerra si è non solo violato ma distrutto il diritto internazionale. La tragedia è stata descritta come legittimata dall’Onu: è falso. Legittima difesa è quella contro un’aggressione in atto. Le risoluzioni dell’Onu del 12 e 13 settembre autorizzavano solo la legittima difesa prevista dall’art. 51 della Carta dell’Onu. Impotenza dell’Onu, silenziosa.

L’intervento militare è una soluzione del tutto apparente. Il problema non è la sorte di Bin Laden. La guerra ha alimentato una spirale di odio disperato. Estirpare la violenza con la violenza è un’idea smentita dalla storia. 

Intanto tutti perdiamo libertà, in Usa e in Italia. L’informazione sulla guerra è assolutamente normalizzata. Il codice militare di guerra andato in vigore condanna la stampa che dà notizie contrarie all’interesse nazionale. Ci hanno fatto credere che ci fosse un attacco al carbonchio: per un mese lo abbiamo creduto tutti.

Tutto ciò è possibile perché la collettività internazionale è sotto la paura, che dà luogo a politiche di sicurezza a scapito della libertà. Questo clima di sospetti è un effetto forse voluto dal terrorismo.

Vogliamo individuare alcune linee di risposta. I problemi sono reali e gravi, ma bisogna non rassegnarsi. Tre linee di impegno:

a) riscoprire la politica. La soluzione è politica, non militare. Dobbiamo lavorare per un mondo diverso tra 50 anni! Questo odio durerà per decenni. L’occidente vede solo i propri conflitti e non fa nulla per gli altri;

b) il disarmo unilaterale, altrimenti la spirale crescerà. O si riduce, con tendenza a zero, l’apparato militare nazionale, demandando la forza all’Onu, o regna la logica della forza;

c) potenziare l’Onu. Il diritto non è solo la volontà del più forte, ma anche il limite alla forza. Occorrono organismi internazionali regolativi, che abbiano la forza per imporre soluzioni. Chiedersi perché non funzionano.

2) La questione del conflitto d’interessi non è solo questione di buone maniere, di garanzia dal prevalere di interessi privati nell’attività di governo. Il problema è che attraverso quel conflitto si arriva a minare il sistema democratico, che è un delicato equilibrio tra diversi poteri: economico, mediatico, giudiziario, ecc. Il conflitto d’interessi significa accumulo di poteri. Il sistema si trasforma in regime.

Mario Dogliani (docente di Diritto Costituzionale, Università di Torino).

1) Bisogna essere più radicali. Si stanno sgretolando i parametri con cui giudicare la guerra e il conflitto d’interessi. In antico il bellum justum era formale: la guerra era giusta se dichiarata dall’autorità. Con sant’Agostino la guerra era giusta o ingiusta secondo i suoi fini, non solo formalmente. Quindi si sviluppò lo jus in bello, che definisce i comportamenti legali e illegali. Dal 1919 si ha una serie di trattati limitativi. 

La Carta dell’Onu contiene il divieto della guerra, come la nostra Costituzione, art. 11. È consentita solo la legittima difesa immediata. Oggi si tende a dire: accanto alla Carta dell’Onu c’è una via parallela, la legittima difesa; invece questa è un caso previsto all’interno della Carta dell’Onu, nei limiti in essa stabiliti.

Dopo il 1945 si è pensato che la maturazione morale dell’umanità avrebbe fatto scomparire la guerra (Dossetti). Fu una speranza fallace.

Rispetto anche alla guerra del ’99 siamo oggi a livelli di marginalizzazione estrema dell’informazione e collaborazione tra governi. C’è una concentrazione imperiale del potere.

Il divieto della guerra (ricorrere alla forza per primi) non è più sentito come vincolante. Le regole cadono se le parti non le sentono come comune interesse. La validità della legge ha bisogno della effettività. Come conseguenza della caduta del divieto è ritornata l’idea della “guerra giusta”, umanitaria, di difesa della civiltà. La situazione è drammatica: non ci sono più parametri normativi. 

Ma prendiamo atto che il terrorismo suicida rimette le condizioni per un discorso razionale (non solo emotivo) intorno alla guerra, un discorso di tipo hobbesiano (come si fece nel pericolo nucleare). Dobbiamo riprendere discorsi simili. Il terrorismo suicida è una violenza tale che dimostra la specie umana come assassina: «L’uguaglianza è che ognuno di noi può uccidere l’altro» (Hobbes). Da qui il pensiero giuridico razionale. Il terrorismo suicida evidenzia questo dato.

È folle pensare di estirpare militarmente il terrorismo. Semmai così si moltiplica la propensione al terrorismo suicida. Il problema è stabilire la società civile a livello planetario. Come fare?

La linea di frattura nel pianeta è oggi tra occidente e mondo islamico. Ci sono state tre guerre in dieci anni. C’è l’umiliazione storica dell’Islam. Ci sono interessi geopolitici e petroliferi. 

Guardando alla storia vediamo che il conflitto franco-tedesco era un conflitto di civiltà, ed ha segnato le sorti dell’Europa dal ’700 ad oggi. Se ne è usciti individuando le basi economiche e politiche comuni: la comunità del carbone e dell’acciaio e la costruzione politica dell’Europa.

Che cosa si fa nei confronti dei paesi arabi? Praticamente nulla. Non c’è da essere ottimisti. Ma oggi il diritto internazionale dovrebbe avere come soggetti anche gli individui, non solo gli stati.

2) Anche riguardo al conflitto d’interessi sono cadute le regole. Come mai? Nella tradizione occidentale c’è la ineleggibilità per rapporti d’affari con lo stato. Questa regola voleva solo evitare che qualcuno traesse vantaggi economici dal potere politico e così danneggiasse il mercato. La regola è stata soppressa nei momenti di governo autoritario, al quale interessa rafforzare la classe politica al potere.

In Italia la regola c’è, ma non è stata applicata perché la verifica dei titoli la fanno gli eletti stessi. Inoltre, la regola non è sentita, viene meno nella coscienza collettiva, perché la confusione tra potere politico e potere economico è in crescita. Non è più possibile fare riferimento solo al sistema normativo.

È positiva la reazione emotiva: non accettare questa realtà. C’è però il rischio del silenzio religioso. Vedi la posizione di Danilo Zolo. La prospettiva d’impegno è a lungo termine.

Repliche alla discussione.

Pepino - I princìpi giuridici, anche se violati, sono importanti. Ma il diritto non reso effettivo è dimezzato. Occorre coniugare validità e effettività. I movimenti anti-sistema sono importanti. Stanno cambiando il modo di fare politica.

Dogliani - La situazione italiana è molto grave, e non c’è un giudizio pubblico sulla gravità. Il partito Forza Italia è radicato nella società, interpreta realtà esistenti, non è solo una potenza mediatica. Prima c’era il governo del premier (Prodi), non di un capo di partito. Oggi c’è un governo di partito (Forza Italia), che però non è democratico. Abbiamo una forma di stato a “democrazia immediata”, identificata carismaticamente. La trasformazione è evidente intorno alla giustizia: tenendo alta la temperatura dello scontro, ogni sentenza potrà essere delegittimata. Sul piano internazionale, non ripetere l’errore della Società delle Nazioni: pensavano di avere costruito un sistema mentre il seme dell’odio cresceva nel terreno.


 
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