CINA E STATI UNITI
La pena che unisce

I grandi analisti politici sostengono che nei prossimi anni tra Stati Uniti e Cina, sotto il profilo economico-politico, sarà scontro aperto. Già oggi le due potenze si guardano in cagnesco – l’alleanza contro il terrorismo internazionale è solo un passaggio obbligato –, ma su una questione vanno perfettamente a braccetto ed è proprio l’applicazione della pena di morte nel loro sistema penale.

Certo, ci sono differenze, e non da poco, dovute al fatto che la democrazia americana, con tutti i suoi limiti, nulla ha a che vedere con un regime politico come quello cinese che reprime senza pietà qualsiasi forma di dissenso, ma alla fine dei conti sia a Washington sia a Pechino lo stato si arroga il diritto di uccidere.

La strana democrazia.

Il pomeriggio del 25 febbraio 1983 Jeannine Nicarico, un’allegra bambina di Naperville, un sobborgo di Chicago, viene stuprata e assassinata da uno sconosciuto. Tre anni dopo Rolando Cruz, senza uno straccio di prove concrete, è condannato a morte mediante iniezione letale per l’omicidio della piccola Jeannine. Il 3 gennaio 1995, durante il terzo processo, uno dei funzionari di polizia che avevano incastrato Ruiz ammette di aver mentito e Cruz, dopo dodici anni di prigione, torna in libertà. Insieme con lui, da quando nel 1976 la pena di morte è stata ripristinata negli Stati Uniti, oltre ottanta detenuti (dato del marzo 2000) hanno evitato l’esecuzione capitale perché sono risultati innocenti. Ma quanti, in condizioni analoghe, non ce l’hanno fatta? Uno studio del 1987 pubblicato dalla «Stanford Law Review» ha evidenziato che, tra il 1900 e il 1985, 23 persone sono state uccise per errore (il caso più famoso è quello dei due anarchici italiani Sacco e Vanzetti).

La più grande democrazia del mondo – o presunta tale –, sempre pronta a impartire lezioni a tutti, evidentemente ha ancora molto da imparare. In questi anni non ha esitato a giustiziare ritardati mentali e minorenni, come neanche il peggiore dei regimi dittatoriali. La sete di vendetta degli Stati Uniti è unica nel mondo occidentale, anche se il sostegno alla pena di morte comincia a riscuotere meno consensi rispetto a un tempo. Un recente sondaggio del «Washington Post/Abc» ha evidenziato che sei americani su dieci sono favorevoli all’esecuzione capitale, percentuale che pur essendo ancora molto alta è comunque inferiore al 77% di circa cinque anni fa.

I motivi di tanto fervore giustizialista sono diversi. Ragioni di carattere storico – il puritanesimo dei padri fondatori con la sua devastante carica moralistica è iscritto nel Dna degli americani, non c’è niente da fare – si fondono a una politica penale più attenta alla repressione che alla prevenzione e a meccanismi che prevedono l’elezione diretta di quasi tutte le più alte cariche istituzionali. Ciò significa che se vuoi diventare presidente degli Stati Uniti o governatore di uno stato devi far contento il cittadino che reclama il patibolo. 

Ingiustizia di classe.

A pagare con la vita, comunque, sono sempre gli stessi. Sull’applicazione della pena capitale negli States i vescovi della Florida hanno scritto che essa ha «carattere discriminatorio e riguarda generalmente i meno privilegiati: gli indigenti, gli isolati, le minoranze, i gruppi etnici». I ricchi riescono sempre a togliersi dagli impicci, mentre ai poveri non rimane che affidarsi alla buona sorte soprattutto se a difenderli sono avvocati designati dal tribunale, oberati di lavoro per le centinaia di crimini gravi assegnati loro d’ufficio, un’enormità, sottopagati e che addirittura si addormentano durante le udienze. Sì, avete letto bene, si appisolano, alla faccia dei loro assistiti che rischiano di passare a miglior vita. Nel Texas è successo almeno tre volte, ma le corti hanno decretato che ciò non violava il diritto costituzionale perché «la Costituzione non dice che l’avvocato debba essere sveglio».

Come ti educo il popolo.

In Cina il problema dell’assopimento l’hanno risolto alla radice. Agli imputati spesso è negato il diritto ad avere un legale e quando viene concesso ha tempo due o tre giorni per preparare la difesa. I processi sono sommari, con testimonianze fasulle o confessioni estorte agli imputati sotto tortura e si concludono con esecuzioni pubbliche dalle evidenti finalità “pedagogiche”. Bisogna far capire ai cittadini che la corruzione è una cosa brutta, sporca e cattiva? Semplice, si prende un funzionario corrotto e lo s’impala. Le disastrose alluvioni degli ultimi anni sono causate, tra l’altro, dalla spoliazione delle colline? Banale, si giustizia chi appicca il fuoco alle foreste per dissuadere eventuali piromani. E così via, per un totale di 68 reati, tutti punibili con la pena capitale, normalmente eseguita con un colpo di pistola alla nuca, tra cui troviamo l’uccisione di tigri, la vendita di fatture false, il contrabbando di macchine, il commercio di pelli di panda giganti, il furto di mucche, cavalli e cammelli. 

Non esistono dati certi sulle esecuzioni perché le autorità cinesi non pubblicano alcuna statistica ed è assai probabile che siano parecchie migliaia le persone condannate a morte. Un uso così massiccio di metodi cruenti nell’esercizio della giustizia ha anche ragioni di carattere politico. È da un po’ che la Cina sta attraversando una fase di profondi mutamenti, caratterizzati da una miscela esplosiva di capitalismo selvaggio e dittatura comunista. L’incredibile e diseguale sviluppo di questi anni – con tassi di crescita a due cifre – ha allargato la forbice tra ricchi e poveri, con un inevitabile aumento delle tensioni sociali e dell’illegalità di massa e il governo non ha saputo rispondere che con la forca. 

Amnesty International e poche altre voci, da decenni, denunciano questa situazione, mentre assai più morbido appare l’atteggiamento di molti governi nazionali che per eccesso di realpolitik distolgono lo sguardo da Pechino: l’assegnazione dei Giochi Olimpici del 2008 ci sembra un’ulteriore prova della cecità di molti.

Fausto Caffarelli


 
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