DISCUSSIONE
Ma c’è anche l’orrore per la guerra
Vorrei tornare sull’articolo di Massimiliano Fortuna dal titolo La bella guerra pubblicato sul 
n. 288 del foglio. Le sue osservazioni critiche sono utili alla ricerca nonviolenta.

Anzitutto la dottrina nonviolenta non si ispira al marxismo, oggi meno che mai, e lo ha sempre criticato duramente non sul fine ma sul mezzo per il suo machiavellismo riguardo alla violenza.

Inoltre, la dottrina nonviolenta non dipende tanto da un’opzione antropologica ottimistica di tipo illuminista, quanto da una fede-speranza-amore – vogliamo chiamare questo ottimismo? Semmai ottimismo tragico – di carattere religioso (anche eretico, come per Capitini). Anche i maestri più “laici” che evidenziano la razionalità e il valore etico della nonviolenza (come Sharp o Galtung), mi pare abbiano una sottostante ispirazione più religiosa che razionalistica. (Chiamo “religioso” colui che sente qualcosa oltre la realtà attuale, anche se lo interpreta come esigenza razionale.) Tuttavia, ammetto che il problema c’è, in forme di nonviolenza ingenua, non meditata, più in fuga dalla paura della violenza che in ricerca costruttiva del suo superamento. 

Quanto all’illuminismo, esso non ha prodotto nonviolenza, se non la maggiore possibile “regolazione” della violenza nella democrazia (vedi Bobbio).

L’esaltazione vissuta nell’atto violento è un fatto. Galtung (Pace con mezzi pacifici, Esperia, pp. 74-79) cita studi sull’erezione e l’orgasmo provato da soldati nell’assalto in guerra. Proviamo un’esaltazione anche solo nell’arrabbiarci o nell’insultare qualcuno (meglio se assente...). Ma altrettanto c’è in noi l’orrore profondo, primario, costitutivo, per la distruzione della vita, e il senso di identificazione con l’altro vivente (non soltanto umano), perciò di com-passione, e quindi di impegno e dedizione. Chi ha visto uccidere, come me da bambino, lo sa nel più profondo di sé. Questo senso può essere educato, sviluppato, oppure attenuato, persino soppresso, ma è costitutivo, sebbene in tensione con l’istinto di morte.

Le due cose insieme (vitalismo violento e com-passione) dicono la nostra ambiguità, e questo lo sapevamo. Il problema è gestirla, risolverla. La cultura di guerra costruisce il nemico de-umanizzandolo, sulla base dell’istinto di morte amplificato e utilizzato dal potere. La cultura di pace costruisce l’amico anche nel nemico, sulla base dell’istinto di vita. Tutto sta nella scelta. La nostra “natura” è la cultura, cioè la scelta, la libertà responsabile (Pico della Mirandola letto da Pier Cesare Bori, Pluralità delle vie, Feltrinelli 2000). I fattori determinanti la violenza, secondo studi seri (Dichiarazione di Siviglia sulla violenza, Unesco, 16 maggio 1986; Galtung, op. cit., p. 79 e ss.; ma anche la tesi principale del libro sul primato dei fattori culturali: Piero Giorgi, The origins of violence by cultural evolution, Brisbane 1999), sono assai più culturali che biologici o soltanto psicologici.

Enrico Peyretti
 

Replico in sintesi.

1) Non intendevo dire che la nonviolenza si ispira al marxismo (anche se politicamente, almeno in Italia, è quella l’area – certo di un marxismo inteso in senso anche molto lato – che più sembrerebbe riferirsi ad essa), ma semplicemente che troppo spesso ci si arresta quasi unicamente alle implicazioni economiche di una guerra e dell’agire violento, con una equazione capitalismo=Usa=oppressione, che corre il rischio di divenire una formula di maniera ed anche, nella semplificazione urlata degli slogan da corteo, politicamente sospetta, a causa di una, talora evidente, parzialità.

2) Un’analisi, pur essenziale, dell’ottimismo e del pessimismo antropologico e delle loro diverse implicazioni filosofiche sarebbe lunghissima ed enormemente impegnativa. Mi limito a dire che per  “ottimismo” intendo anche il compiacimento del disvelare, la sicurezza, non di rado troppo marcata nei movimenti nonviolenti, che esistano soluzioni fondamentalmente certe, lineari (magari condensabili in pochi punti) e di applicazione relativamente semplice. L’ambiguità umana è spesso lasciata sullo sfondo a favore di una quasi idolatria della volontà: prevale la sensazione che le cose si possano dominare e debba considerarsi estremamente improbabile, se animati da rette intenzioni, che siano le cose a poter dominare noi. La nozione greca di destino, con le sue antinomie tragiche, non mi pare faccia, in genere, parte delle risorse culturali del nonviolento. Ma non vorrei dare l’idea di idolatrare a mia volta l’ambiguità e l’antinomia; sostengo semplicemente che la loro presenza potrebbe forse risultare d’aiuto in quell’opera di non demonizzazione dell’“altro”, che la nonviolenza ovviamente propugna, ma che talvolta nelle sue applicazioni pratiche sembra dimenticare. Per scendere nell’attualità: la non demonizzazione di Bin Laden e dell’estremismo islamico, se vuole essere coerente, deve andare di pari passo con una non demonizzazione di Bush e del governo statunitense. 

E, molto concisamente, direi che di matrice illuministica può considerarsi anche la convinzione, classico patrimonio del filosofare nonviolento, di una sorta di onnipotenza dell’azione educativa.

3) Di nuovo, la diade natura-cultura, strettamente legata a pessimismo o ottimismo antropologico, apre spazi di discussione vastissimi. Io davvero non so dire se il ricettacolo della violenza sia da cercare più nella natura o – al modo illuministico e marxista – più nei condizionamenti culturali. Francamente sono convinto che per quanti «studi seri» (ed altri, di taglio differente, si potrebbero citare) si possano intraprendere, il prevalere di un’ipotesi o dell’altra sia alla fine dettato da nostre, difficilmente sondabili, inclinazioni personali, qualcosa che richiama più una fede che il nitore dell’analisi, per intenderci. In primo luogo ritengo quindi indispensabile non cadere nell’insidia degli opposti riduzionismi. Appiattirsi, ad esempio, su distinzioni del tipo l’aggressività ci viene dalla natura e la distruttività dalla cultura, a me suona un poco schematico; più in generale, la natura non umana sembra nonviolenta? In modo simmetrico è fortemente sospetta l’euforia di quanti si dicono convinti dell’esistenza di ormoni che inducono all’agire violento e, conseguentemente, inferiscono che il controllo e l’eliminazione (culturale) di questi ormoni spianerebbero la strada all’estinzione dell’umano confliggere.

Per chiudere, al termine del carteggio con Einstein sulla guerra Freud osserva: «Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento [Kultur-entwiklung] ... Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti e buona parte di ciò di cui soffriamo». Io credo si debba partire da qui.

Massimiliano Fortuna 


 
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