SECONDO FORUM SOCIALE MONDIALE A PORTO ALEGRE |
Un mondo diverso è necessario |
Primo: i black block non c’erano. Secondo: il subcomandante Marcos non si è tolto il passamontagna (alcune anticipazioni dei mesi scorsi lo davano per certo) anche perché in Brasile non s’è fatto vedere. Per il resto, numeri da capogiro a Porto Alegre: 150 paesi rappresentati, 15.000 giovani presenti al campeggio Carlo Giuliani, 1.000 parlamentari partecipanti, 1.800 volontari, 30 assemblee plenarie, 70 seminari, 700 workshops, 3.054 giornalisti di 48 paesi. Il popolo di Seattle, etichetta mediatica ormai stantia e che utilizziamo per l’ultima volta, è cresciuto. L’età della contestazione, passaggio obbligato che ha dato grande visibilità alle istanze del “movimento dei movimenti”, sta lasciando spazio sempre di più a proposte concrete per costruire quell’altro mondo finora ritenuto impossibile dai cantori della globalizzazione neoliberista, che nei giorni di Porto Alegre erano riuniti contemporaneamente a New York per il «World Economic Forum». Perché Porto Alegre? Aver scelto Porto Alegre come sede degli incontri – sarà così anche il prossimo anno – non Non c’è solo il Pil. Nei giorni del Forum si è discusso di centinaia di argomenti e fare una sintesi è praticamente impossibile. Quattro erano le grandi sessioni tematiche: produzione della ricchezza e riproduzione sociale, accesso alla ricchezza e sostenibilità, società civile e spazi pubblici, potere politico ed etica. In questa sede evidenziamo due questioni specifiche, paradigmatiche di ciò che s’intende quando si afferma che «un altro mondo è possibile» (e qualcuno aggiunge «necessario»). La Rete di Lilliput, una delle cento anime del movimento italiano, ha animato un dibattito sul Prodotto Interno Lordo e i nuovi parametri di valutazione. Il PIL è oggi il giudice unico che sancisce il successo o la disfatta dei governi. Se cresce ci dicono che va tutto bene, se diminuisce sono dolori. Il problema vero è che mostra un pezzo di verità e nasconde altre facce, producendo effetti paradossali. Il sociologo Luciano Gallino propone un esempio calzante (in Globalizzazione e disuguaglianza, Laterza, 2000): «Lo stato italiano spende ogni anno circa 50.000 miliardi di lire per gli indennizzi e le cure conseguenti agli incidenti sul lavoro, che nel 1999 sono stati 960.000, con 1.200 morti e decine di migliaia di feriti gravi e mutilati. Il valore dei premi assicurativi, dei servizi medici, dei prodotti farmaceutici, delle protesi acquistate con tali fondi è collocato tra gli addendi del Pil». Ecco il problema: è stata prodotta della ricchezza, ma a che prezzo? Nel caso citato da Gallino il Pil fa un bel balzo all’insù, ma un’analisi corretta come fa a non tenere conto della componente negativa che ha generato l’aumento? Da qui la necessità di nuovi indicatori nei quali entrino in gioco anche quegli aspetti sinora trascurati. Al Forum la rete di Lilliput ha presentato un software denominato «cruscotto della sostenibilità», che risponde a questo spirito. È un “frullatore” nel quale, oltre al Pil, sono stati immessi decine e decine di parametri (a caso: aspettativa di vita, emissione di anidride carbonica, tasso di alfabetizzazione, produzione di rifiuti pericolosi) relativi a quasi tutte le nazioni del mondo. Il programma organizza i dati e li trasforma in indici che danno un quadro, anche visivo, dello stato di salute di un paese. Il petrolio del futuro. L’altra questione è legata al grande tema dell’acqua. Nel mondo ci sono oggi un miliardo e quattrocento milioni di persone che non hanno accesso all’acqua potabile, che nel 2020 potrebbero diventare tre miliardi se non si evita quella che è stata definita la sua “petrolizzazione”, ossia un processo di privatizzazione – già in atto – che sta trasformando l’acqua in mera merce e causa di conflitti. L’economista Riccardo Petrella, una delle teste pensanti dei popoli di Porto Alegre, riassume così la questione (cfr www.manitese.it/mensile/1001/acqua.htm): «L’acqua non può essere considerata un semplice bisogno, ma un diritto. Diritto individuale, collettivo, umano e sociale. Irrinunciabile. A tutti deve essere riconosciuto il diritto all’accesso all’acqua potabile, in quanto insostituibile fonte di vita. E sarà compito della collettività individuare le risorse finanziarie necessarie a coprire i costi di distribuzione e di gestione dell’acqua». La privatizzazione dilaga perché i governi, di fronte a una risorsa che sta diventando sempre più rara e sempre più richiesta, ritengono che solo il libero gioco di domanda-offerta può evitare che attorno all’acqua si scateni una guerra senza quartiere. In realtà chi sta traendo vantaggio da questa operazione sono le compagnie private, che grazie all’aumento dei prezzi vedono crescere a dismisura gli utili senza che ciò comporti un reale beneficio per la collettività, costretta a pagare bollette sempre più esose. Le reazioni di protesta dei cittadini si stanno moltiplicando e ottengono risultati concreti, un’ennesima dimostrazione che certe degenerazioni all’interno dell’attuale processo di globalizzazione possono essere contrastate. È quello che è successo a Montreal, dove 10.000 persone sono scese in piazza e hanno costretto al dietrofront le autorità del Quebec che avevano in tasca i piani di privatizzazione dell’acqua della città, o a Cochabamba in Bolivia dove una rivolta dei contadini durata quattro mesi ha portato all’annullamento del contratto che il governo aveva stipulato con un’impresa privata per la vendita dell’acquedotto municipale. Le proposte che emergono da Porto Alegre/2 sono la costituzione di un Parlamento Internazionale dell’acqua, gestito dal basso, nel quale le comunità locali possano decidere sull’uso delle risorse idriche, la moratoria sulla costruzione di nuovi grandi dighe che insieme alle industrie inquinanti e all’agricoltura intensiva rappresentano una delle cause principali della scarsità dell’acqua, la promozione di un nuovo modello energetico basato sull’uso di fonti alternative come il vento, il sole e le biomasse. I punti di forza. Il Forum non si è concluso, come già era successo l’anno scorso, con una dichiarazione finale. Il documento più significativo è quello dei movimenti sociali, che in Brasile hanno rappresentato la parte maggioritaria delle tante espressioni presenti. Di rilievo è la ferma condanna non solo della guerra permanente con la quale gli Stati Uniti intendono consolidare il loro dominio politico ed economico, ma in generale dell’uso della violenza per la risoluzione dei conflitti. Non è un’affermazione da poco, se si pensa che l’apologia della lotta armata ha sempre trovato spazi rilevanti nei movimenti di contestazione. No alla violenza – almeno sul piano ideale – anche quando è al servizio di cause motivate e alla luce di questo principio gli organizzatori del Forum hanno negato la parola a rappresentanti dell’Eta basca, che avrebbero voluto intervenire in alcune sessioni di lavoro. Tra gli obiettivi a breve e medio termine il documento sottolinea la necessità d’introdurre una tassa sui movimenti speculativi di capitale – la Tobin Tax –, proposta che anche la sinistra tradizionale, finora scettica, comincia a guardare con interesse; la cancellazione del debito estero, pagato e strapagato dai paesi poveri; l’abolizione dei paradisi fiscali. I cinque giorni di Porto Alegre hanno confermato la vitalità di un movimento che dopo l’11 settembre parecchi opinionisti avevano invitato a tornare a casa. È un movimento intergenerazionale, con una forte e significativa presenza di giovani, che testimonia una voglia diffusa di ritornare all’impegno sociale e politico, slegato dai vecchi schemi di partito. Ha una dimensione internazionale e questo gli permette, anche nelle contraddizioni, di ragionare con molteplici punti di vista. È una macchina d’idee che mette in campo intellettuali di altissimo livello e che stimola in tanti il desiderio di approfondire i problemi. I prossimi appuntamenti – all’Italia tocca l’organizzazione del Forum Continentale Europeo che si svolgerà a Firenze alla fine di quest’anno – ci diranno a che punto è la costruzione del “nuovo mondo”. Fausto Caffarelli |