GIORNALI
Caro «manifesto»...

Leggo saltuariamente «il manifesto», quattro-cinque volte al mese, anche se lo considero il più vicino alle mie opinioni politiche, riconoscendogli un ruolo molto importante di ponte nell’arcipelago sempre più frastagliato di quell’area chiamata: sinistra, eco-pacifismo, alternativa al sistema, ecc., la quale, anche per le sue sempre più marcate divisioni, sta attraversando un momento piuttosto critico.

Credo e spero che abbia fatto qualche studio sulle tipologie dei suoi lettori, ma dalle mie deduzioni non credo ci siano molti lavoratori interinali, piccole partite iva, giovani disoccupati, capaci di esprimere sufficientemente l’area del precariato. Mentre il lavoro dipendente credo sia più rappresentato dagli insegnanti rispetto ai metalmeccanici! Non ho nulla contro le professioni intellettuali, anzi, ma temo un’eccessiva autoreferenzialità a scapito dei propositi originari, tra i quali ritengo sia a rischio anche una più ampia diffusione di una certa cultura; attenta e che vive nel sociale.

Potrebbe esprimere un più forte contributo a ciò partendo anche da una autocritica: se il cosiddetto nuovo che avanza ha conquistato pure i ceti popolari anche grazie a un linguaggio più semplice, «il manifesto» persevera dando un grande rilievo a pagine accademiche. Non vorrei, in un futuro prossimo, identificare questa storica testata alla stregua di una fittizia Gazzetta Ufficiale della Sinistra...

Un altro motivo che spesso mi fa preferire a questa altri giornali (anche perché hanno inclusa la cronaca cittadina), è la quasi assenza di notizie d’evasione (sportive e non), con classifiche e altri dettagli. Il problema non è certo risolvibile emulando le cronache più effimere e pettegole sul divo, calciatore o personaggio di turno, capace di far raggiungere i target di vendita dei potentati editoriali. Si tratta piuttosto di comprendere un “pathos diffuso” per esprimersi con un’informazione che, oltre alla coerenza e intelligenza, sappia essere più comprensiva dei bisogni rappresentati anche dalla spettacolare ritualità degli eventi di massa, con esiti e speranze che spesso sconfinano in metafore di vita quotidiana. Nelle sue pagine riconosco valori illuminanti e coerenti che risvegliano un bisogno di riscatto dalla cosiddetta realtà dominante, ma, secondo me, tutto ciò non esclude la considerazione di un immaginario collettivo che appartiene alla nostra cultura. È giusto ignorare o relegare il tutto ad uno spazio marginale per dimostrare che non esiste? Non si chiede di cavalcare la tigre, ma almeno di non farsi coprire dal suo ruggito.

Giampiero Fasoli


 
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