IL FEROCE DOPOGUERRA (1)
Non c’è più la delinquenza d’una volta
«Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo» (Il Manifesto del Futurismo, n. 9). La guerra va invece ripudiata in quanto contamina, infetta, lorda il mondo. Esaminando i giornali del secondo dopoguerra si può notare quanto la guerra abbia contribuito a corrompere, imbarbarire, abbrutire le coscienze. Le date che seguono si riferiscono a «La Stampa», o meglio a «La Nuova Stampa». Se preceduta da una G la data si riferisce a «La Gazzetta del Popolo», o meglio a «La Gazzetta d’Italia».

Le foibe di Castelnuovo.

Si è parlato a lungo delle foibe di Tito e delle esecuzioni sommarie avvenute in Emilia, come strascico della guerra. Ma anche in Piemonte molti scheletri sono ancora da dissotterrare. Tra Moncucco e Castelnuovo vi sono cave di gesso, «pozzi profondi una cinquantina di metri con un’apertura del diametro di circa quattro, man mano ampliantesi verso il fondo. Nell’inverno del 1944 e nella primavera del 1945 coloro che abitano nei dintorni udirono, a più riprese, raffiche di mitra e alti gemiti levarsi nella notte. Il mattino dopo scorgevano chiazze di sangue sull’imboccatura delle cave... Un tizio di Buttigliera avrebbe detto di aver lanciato nelle cave, lui solo, sessanta individui; forse si tratta di una vanteria di poco buon gusto. Non soltanto fascisti sarebbero stati “infoibati” ma anche gente rapinata e derubata. “Quelli non erano partigiani, erano assassini”. Per stabilire quanto vi sia di vero in ciò che sussurra la gente non c’è che un mezzo: scandagliare le cave. Che si aspetta a farlo?» (17-7-1946). Non risulta che ciò sia mai stato fatto.

L’occultamento di cadaveri può portare a tragiche conseguenze, nell’estate del ’46 scoppia a Diano Marina un’epidemia di tifo. Mille persone sono colpite e vengono ricoverate in un lazzaretto. Sei mesi più tardi vengono trovati nell’acquedotto «i cadaveri di due repubblichini
giustiziati nella primavera del 1945. Si fanno risalire alla presenza di questi due cadaveri le cause dell’epidemia di tifo» (11-1-1947).

Partigiani? Fascisti? Poliziotti? Volgari delinquenti? In quell’epoca tutto tende a scambiarsi, a confondersi, a rimescolarsi, in un macabro gioco che ha per sfondo il degrado del vivere civile e la cinica indifferenza per la vita umana del feroce dopoguerra. Nell’Alessandrino c’era un campo di concentramento per fascisti. Di notte i detenuti ed i poliziotti, tutti bene armati, uscivano e si appostavano lungo le strade per depredare autotrasporti e macchine. Finito il lavoro, tornavano nel campo (C 4-9-1945).

Un folto gruppo di banditi milanesi che si definiscono «estromessi dalla società per motivi politici ai quali il sostentamento giornaliero è legato ad atti di sabotaggio» offre tre giorni di «tregua della delinquenza nella città». Dopo di che «staremo a vedere»: se ci sarà un’immediata amnistia, bene; se no torneranno a rapinare (6-9-1945).

Ad Asti trenta poliziotti si ribellano: si allontanano ben armati e motorizzati e si accampano presso Santo Stefano Belbo. Ad essi si aggiungono quattrocento ex partigiani, reduci ed ex internati mentre forti contingenti sono attesi dal cuneese. L’accampamento è agli ordini di un “comando generale partigiani rivoluzionari” (23-8-1946). I comunisti torinesi invitano alla calma (27-8-46) e l’ammutinamento gradualmente rientra.

A Roma si scopre «un’associazione specializzata nello spaccio di falsi attestati di patriota e di partigiano. Si calcola che tali certificati siano stati rilasciati a migliaia non solo a Roma, giacché l’associazione ha diramazioni in tutta Italia e prevalentemente nel Settentrione... Si è accertato che i possessori dei certificati sono quasi tutti ex collaborazionisti o repubblichini o ex fascisti» (27-2-1947).

L’armata strambinese.

Far West nel Canavese: un treno viene assalito da una banda. Da questo episodio parte un’inchiesta sul banditismo che aveva in Strambino il suo quartier generale. Ci si domanda dove sia finito «tutto l’equipaggiamento dei 67mila tedeschi e dei 12mila repubblichini arresisi ai partigiani nei pressi di Caluso il 2 maggio 1945. Della colonna facevano parte oltre tremila automezzi e 2500 cavalli. Caddero nelle mani dei partigiani centinaia di tonnellate di benzina, stoffe per 200 milioni di lire, pellami, apparecchi radio e forse una grande collezione di quadri. Nell’elenco figura nientemeno che un “Br 20”, aeroplano bimotore da bombardamento. Fu costituito un vasto parcheggio ma in pochissimi giorni ogni cosa sparì» (24-1-1947). Non risulta che l’enigma sia stato risolto.

Il furto di treni e di altro materiale pesante sembra sia una specialità piemontese. Nelle ultime settimane prima della liberazione i partigiani avevano fatto deragliare un treno presso Vigone. In seguito il treno era stato rubato: «Ignoti si sono occupati del povero convoglio e pezzo per pezzo l’hanno demolito. Di cinque vagoni e di una macchina in pochi mesi non sono rimasti che pochi rottami insignificanti: anche le pesantissime ruote hanno preso il volo (31-10-1945).

Alla luce di questi maxifurti non c’è da stupirsi che le bande di malfattori fossero così ben equipaggiate. E non solo l’esercito di Giuliano ed i trecento di La Marca. Abbiamo in Liguria la banda del Bracco: 50 rapine in sei mesi. «Verso Sestri Levante alla fine di settembre i banditi hanno attaccato un’autocolonna scortata. La polizia partigiana di scorta ha ingaggiato battaglia ed è stata costretta a ritirarsi davanti al fuoco di circa trenta mitragliatori che hanno sparato per più di un quarto d’ora» (G 23-12-1945).

Tra Carmagnola e Carignano opera una banda di briganti (G 3-8-1945); sull’autostrada per Milano venti banditi bene armati assaltano e catturano un camion (8-8-1946).

L’arte del linciaggio.

«Non c’è popolo che non abbia, in un certo momento della sua storia, bruciato come in una grande fiamma le immagini viventi, i responsabili delle proprie colpe. Non è vendetta, questa, né volontà di sangue, ma semmai bisogno di giustizia, di purezza, di vita. Quegli uomini miserabili stavano ancora a segnare con la loro offensiva presenza che non tutti i peccati erano scontati e che il male poteva ancora trovare un terreno propizio al contagio? («Risorgimento Liberale - organo del Partito Liberale Italiano», 30-4-1945); così Mario Pannunzio a proposito dell’esecuzione di Mussolini. Sullo stesso quotidiano la macabra esposizione viene descritta nei seguenti termini: «La moltitudine si pigia e si fa largo a forza di gomiti, abbandonando anche le biciclette, senza paura di furti. Oggi tutta la popolazione è una grande famiglia, e lo scopo di giustizia per il quale tutti sono qua è troppo sacro perché vi siano preoccupazioni. A poco a poco, fendendo la siepe umana, gli ultimi sopraggiunti riescono a intravedere il gruppo dei cadaveri. L’odio e il furore si leggono sul volto di tutti». Ora, dopo 57 anni di democrazia, possiamo e dobbiamo provare orrore dinanzi ad una simile aberrazione. Ma allora tutto sembrava giusto e naturale. I soliti bempensanti sentenziano: «Ecco la civiltà dei partigiani!». Ma esaminando le cronache di allora vediamo che questa orrenda esibizione è solo un esempio del degrado morale portato dall’educazione fascista e dalla guerra fascista. Il disprezzo per la vita che pervadeva i barbari italiani di allora emerge da tanti altri episodi, in cui la lotta politica non c’entra.

A Cirié un ladro di biciclette viene massacrato a pugni e calci dalla folla (23-8-1945); due linciaggi sono segnalati nel Mantovano (17-2-1948); presso Rieti, un centinaio di persone assalta il carcere, immobilizza i carabinieri, preleva due presunti assassini: «I due delinquenti venivano trasportati a Borbona e qui, sulla piazza principale, dopo sommario processo giustiziati» (15-3-1946).

A Torino, a Borgo San Paolo, un ladro di biciclette si sottrae al linciaggio rifugiandosi presso il Commissariato (25-7-1945); un altro, tutto pesto di legnate, viene salvato dalla Volante in Via dei Mercanti (2-7-1946); un altro viene salvato a stento in Corso San Martino (23-4-1948).

Ma spetta a Milano il titolo di capitale morale del linciaggio. In un articolo intitolato L’arte del linciaggio si analizza il fenomeno. «Se si ruba un’automobile, nessun cittadino se ne cura: ci penserà la polizia. Se si ruba una bicicletta, non ci pensa la polizia, e freme il cittadino. Freme a tal punto, offeso nella solidarietà coi proletari su due ruote, che, se colto, il ladro viene assalito da decine di persone. Si sa come finiscono queste cose; uno schiaffo per ciascuno. I ritardatari si eccitano, gridano che sia concesso di schiaffeggiare anche a loro; sono cittadini come gli altri, pagano le tasse sacrosante. Quale richiamo della foresta li trascina all’esaltata crudeltà? Forse soltanto il contagio della massa e la liberazione dal senso di responsabilità. Se si uccide in dieci sembra di essersi divisi la colpa. I linciatori aspirano ad appendere le vittime agli alberi e ai lampioni. Per Natale vedremo la città ornata di tanti ciondoli oscillanti dai rami gelati, simili a bamboline di zucchero» (25-8-1946).

Nessun processo ai linciatori, nessuna protesta per il tono cinicamente scherzoso dell’articolo.

Dario Oitana

(continua)


 
[ Indice] [ Sommario ] [ Archivio ] [ Pagina principale ]