DOPO L'OMICIDIO BIAGI |
Orizzonti della politica |
Le morti legate a risvolti politici sono quasi sempre morti tradite in partenza. Per esse viene subito meno, quasi istituzionalmente si potrebbe dire, l’unico atto che di fronte all’evento del morire non suoni stonato: il silenzio. Di una morte come quella del professor Biagi sembra davvero impossibile evitare di parlarne. Lo esige la stampa naturalmente, veicolo di comunicazione che alimenta nei propri ormoni la logica dell’esasperazione del commento; ma soprattutto lo esige la politica, perché da essa si sente direttamente coinvolta, perché grazie ad essa si svela all’improvviso quel che a tutti occorrerebbe preventivamente sapere: e cioè che il politico rappresenta l’ambito in cui si scontrano forze e volontà diverse, perennemente in bilico sul baratro della violenza pura, costantemente – seppur inconfessabilmente – sedotte dalla liberazione che seguirebbe all’annullamento fisico del proprio oppositore. Ancor più impietoso è il consueto spettacolo della parola che insegue un’appropriazione. Quella stessa morte che sempre, con l’irrompere della sua abissale vacuità, si sottrae ad ogni nome in grado di contenerla e ad ogni potere capace di possederla, ha dovuto subire, con Biagi come in mille altri casi, il ridicolo contrappasso di un linguaggio che tenta lucidamente di spiegarla e di fazioni politiche che se la contendono. Ma tutto questo in fondo non testimonia che qualcosa di già noto: è il limite stesso della politica a manifestarsi qui, la sua costitutiva, ed al tempo stesso necessaria, esiguità di orizzonti. Alla politica non è dato pensare radicalmente la morte, se lo facesse cesserebbe di essere politica per divenire religione o meditazione metafisica, e, soprattutto, dissolverebbe la sua irrinunciabile funzione: l’arte di mediare estremi, lo sforzo di edificare uno spazio comune entro cui il dolore e la morte siano non tanto compresi ed “elaborati”, quanto il più possibile tenuti a distanza. Naturalmente è alla più nobile tradizione politica che ci si sta riferendo, quella che, per quanto riguarda il mondo occidentale, ha origine nel tentativo greco di creare un equilibrio (la democrazia) che non annulli le opposizioni conflittuali con l’uso della forza coattiva ma sia capace di costituirsi attorno alla loro inesauribile composizione dialettica. Ma se non fa parte delle risorse della politica il mettersi in cerca di parole di autentica consolazione, se anzi non è mai auspicabile che essa si ponga all’inseguimento di una parola assoluta, che fatalmente finirebbe per irrigidirla in dominio autoritario o totalitario, è però suo compito l’elaborazione, come voleva Aristotele, di un linguaggio capace di rispecchiare quell’ambito del probabile su cui la convivenza umana si fonda. Ed allora, con l’aiuto di questa parola che si sa approssimativa, dell’omicidio Biagi è davvero impossibile non parlare. È impossibile non domandarsi, come molti si sono infatti domandati, perché questo importante collaboratore di un ministro si trovasse senza scorta. È impossibile non avviare una riflessione critica nei confronti del terrorismo di estrema sinistra che ha rivendicato l’attentato: interrogandosi per prima cosa su quali paragoni si possano istituire con il terrorismo degli anni Settanta, se, come quello, esso sia in grado o meno di rappresentare un significativo strato sociale; e chiedendosi poi se questa azione armata si leghi realmente alla lotta politica o non appartenga invece a fenomeni eversivi di differente genere. Ed è impossibile rifiutarsi di avviare un’analisi che possegga la saggezza di penetrare entro intricate controversie sindacali con l’intento di dirimere e distinguere e vagliare prima di condannare aprioristicamente o aprioristicamente esaltare. Allora si potrebbe, ad esempio, cominciare con il leggere quel che ha scritto Marco Biagi nei mesi precedenti la sua morte. Magari non per altro, ma per il gusto di leggere semplicemente. Leggere prima di parlare o scrivere, leggere prima di prendere posizione – sovente in merito ad argomenti sui quali non si è mai letto nulla. L’autentica lettura segna l’inevitabile apparire di quell’atto che inaugura la dimensione dell’ascolto, che costringe all’attenzione di una parola altra. Ecco, se esiste una perversione che Berlusconi ha grandemente acuito – ma non introdotto per primo, in verità – nella politica italiana, è quella di un parlare che sembra precludersi in partenza la possibilità dell’ascolto; un parlare rispecchiato da un linguaggio che di certo non sembra trovare ispirazione in un’etica fondata sull’inesauribile ricchezza dell’interpretare e del dialogare, ma semmai nella dizione artefatta e sottilmente imperiosa dell’inserzionista pubblicitario, mai increspata dall’incertezza di un silenzio, mai solcata da un’improvvisa balbuzie. Eppure uno spazio di pacificazione, forse, lo si può costruire unicamente attorno alle nostre consapevoli balbuzie. Massimiliano Fortuna |