LA LINGUA DELLA NONVIOLENZA
Degni della rivoluzione

L’assurgere dello slogan a potenza sovrana dell’argomentazione: non è possibile render pienamente conto delle più inquietanti perversioni socio-politiche del Novecento senza scorgere in esse questo potere esercitato dal linguaggio sulla sfera dell’agire. Kraus ne ha riconosciuto un perfetto compimento nel nazismo, dipingendolo, con folgorante sobrietà, come “l’irrompere della frase fatta in azione”.

La frase fatta, tanto rivoluzionaria quanto reazionaria, non potrà che risiedere sul versante opposto della “parola”: religiosa, filosofica, politica, poetica. Ma proprio di questa “parola” antitetica si nutre per vivere, assorbendo da essa, grazie al più elementare atto di vampirismo, linfa vitale posta a servizio di una rigidità cadaverica - come nel vampiro il vivente si specchia in ciò che lo nega, nonostante conservi sembianza di vita, così nella frase fatta la mente umana incontra quel che non può più dirsi mente, sebbene da essa ancora derivi.

Violenza è, in una sua originaria e paradigmatica essenzialità, l’atto per mezzo del quale il luogo comune si sostituisce alla “parola” e pretende di assumerne le funzioni vitali. La matrice di ogni scadimento possibile alligna in quest’atto: in esso la rivelazione diventa dogmatismo, il pensiero opinione, l’idea ideologia (ma anche ideale), l’arte manierismo, il nómos burocrazia, la trasmissione del sapere trasmissione di nozioni, il profeta moralista.

Se lo slogan, come ci ha ricordato Canetti in Massa e potere, già nella sua stessa origine etimologica non rimanda che a un grido di battaglia, si può ben comprendere l’imbarazzo dell’esule praghese Sabina, che ne L’insostenibile leggerezza dell’essere non riesce a spiegare agli amici francesi che la sua incapacità di prender parte ad una manifestazione contro l’imperialismo sovietico è dovuta all’idea che il fondamento del male si annida in “un corteo di gente che marcia levando il braccio e gridando all’unisono le stesse sillabe”. E’ precisamente questo spettro ad aggirarsi immancabile in qualsivoglia corteo; e nella misura in cui un corteo contro la guerra si oppone a questa facendo uso di slogan e proclami, esso, per inevitabile contrappasso, si trova di fatto ricondotto entro quel medesimo orizzonte di violenza da cui con la sua protesta intenderebbe distanziarsi. La frase fatta, nell’ambito dell’umano, è già l’archetipo di ogni arma possibile; di nuovo Kraus: “se l’umanità non avesse frasi fatte, non avrebbe bisogno di armi”.

Se penso alla nonviolenza, io la penso in primo luogo come l’esigenza di porre termine a questo esilio della “parola”, nella profonda, e certo paradossale all’orecchio di molti, convinzione che non possa darsi pensiero astratto dalla forma che lo esprime. Prima che un contenuto specifico la nonviolenza rende testimonianza di un metodo, o meglio si trova che in essa un metodo assume la posizione di contenuto. Metodo che attinge le sue risorse primarie dal convincimento che l’autocritica, il riconoscimento di ogni pur minimo errore, il ripensamento incessante lungi dal costituire una debolezza si rivelano essere incomparabile ricchezza.

A corollario di tutto questo si pone perciò un imprescindibile auspicio: la speranza che l’agire di ogni aspirante nonviolento, prima che nella pretesa di imporre un cambiamento, pur necessario e fortemente desiderabile, agli altri si condensi nello sforzo continuo di cambiare in meglio sé stesso; con lucidità quasi brutale ha notato una volta Georges Friedmann: “molti sono coloro che si immergono totalmente nella politica militante, nella preparazione della Rivoluzione sociale. Rari, molto rari, sono coloro che, per preparare la Rivoluzione, intendono rendersene degni”.

Massimiliano Fortuna


 
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