DOCUMENTO
Il coraggio di chiedersi perdono
Pubblichiamo l’«Appello alla pace fra israeliani e palestinesi di 33 artisti, studiosi e uomini di fede cristiani, ebrei e musulmani» già apparso su alcuni giornali ma senza avere il dovuto risalto, perchè ci sembra un’importante iniziativa, da aiutare spiritualmente e operativamente.

Le culture, i saperi e le fedi religiose che hanno lavorato nel corso dell’ultimo secolo per far crescere il senso del comune destino della famiglia umana, hanno dovuto incassare una dura sconfitta sulla pace.

La tragedia che continua a gravare sui popoli e le nazioni di Palestina e di Israele pesa anche su tutte le genti del mondo, e in particolare sul cuore di quelle che si affacciano sul Mediterraneo. Da mesi, nonostante i progressi compiuti nel corso degli anni ’90 dal processo di pace, la violenza si è riappropriata della scena, con morti e distruzioni che gravano sulla coscienza delle truppe, dei governi, della gente comune.

È evidente che i tentativi di risolvere la situazione con la violenza o per via militare sono condannati al fallimento: decine di appelli, di accuse e richieste sono state diffuse senza che il dolore dei popoli trovasse un istante di sollievo.

Proprio l’estrema disperazione di questo momento ci induce però a credere che esiste un’altra via, debole e disarmata, nella hudna (tregua) e nella nehila (remissione) – la via del perdono –: perdono che può essere osato e chiesto – semplicemente chiesto – dai popoli coinvolti, prima che dai governi e leader internazionali.

I primi che possono chiedere perdono sono gli europei e gli altri popoli, ora spettatori del conflitto che insanguina lo Stato d’Israele e i Territori dell’Autorità palestinese. Questi popoli hanno troppo a lungo ignorato la richiesta diversa e solo apparentemente incomponibile che veniva da quei due mondi. Lo Stato d’Israele e la sua gente hanno chiesto d’essere rassicurati sul fatto che ad essi e ai loro figli toccherà un futuro sicuro e normale. Il popolo palestinese ha chiesto d’essere rassicurato sul fatto che la sua dignità ed il suo onore, calpestati per anni in diverse fasi e modi, vengano ristabiliti e il legittimo diritto a uno Stato si realizzi. Lo strumentalismo col quale le nazioni del Mediterraneo, e non, hanno sottovalutato queste richieste è stato corale: ignorandole, in vista dei propri interessi economici o delle convenienze politiche di breve periodo, esse hanno commesso una colpa grave e collettiva, che non può essere riparata, ma per la quale possono chiedere perdono.

Anche gli israeliani potrebbero scoprire che possono chiedere perdono: pur gravati da immani sofferenze patite nel corso della loro storia e in larga misura dovute al misconoscimento da parte del mondo arabo e palestinese del loro diritto a una patria e a una esistenza normale, essi possono chiedere perdono ai palestinesi e arrivare alla sulha (la riconciliazione). In prima battuta non è questo il compito del governo o degli Stati maggiori: esso appartiene al popolo di Israele.

È questo popolo che ha pagato il prezzo di una inestricabile saldatura fra le legittime paure, il bisogno di difendersi e una visione coraggiosa del futuro: e facendo leva sulla paura alcuni si sono permessi errori e orrori non più riparabili. Certo è più facile sfruttare la forza militare dello Stato che chiedere perdono; ma solo chi la disprezza può affermare che nella cultura e nella sensibilità spirituale del popolo d’Israele non si troverà il coraggio di chiedere perdono, per guardare alla pace come al dono più grande sperimentabile sulla terra.

Nello stesso tempo anche i palestinesi potrebbero scoprire che possono chiedere perdono: pur gravati dalla sradicante perdita del loro universo materiale ed esistenziale, nonché dal misconoscimento da parte israeliana della loro tragedia (la nakba), percepita come un’indiretta conseguenza della nascita dello Stato ebraico a scapito della loro patria, essi possono chiedere perdono agli israeliani, trovare la forza della hudna e arrivare alla sulha (la riconciliazione).

La catastrofe subita e i dolori di lunghi decenni, infatti, hanno spinto alcuni ad atti di irreparabile orrore, che nutrono la violenza reciproca che avvita all’infinito la sanguinosa spirale dell’odio: ha onore e dignità il combattente capace di capire chi paga per la sua guerra e lotta perché alla generazione futura siano risparmiate le pene che lui ha conosciuto. Solo chi disprezza la causa palestinese può pensare che nel popolo non ci sia coscienza dell’onore che conquista chi scopre che si può chiedere perdono.

Il mea culpa pronunciato da Giovanni Paolo Il a nome della Chiesa cattolico-romana in diverse circostanze mostra che chiedere perdono è un passo difficile, ma necessario per iniziare ad abbattere diffidenze e rancori invincibili. La memoria di quel gesto ci spinge a fare appello perché ognuno – sia chi può pensare di perdonare, sia chi ancora non può farlo – si interroghi su come chiedere perdono.

Siamo consapevoli che un appello non potrà mettere in azione tutte le energie etiche e religiose sulle quali possono contare le nostre società, ma qualunque cosa accada, la strada che indica rimane la sola a disposizione di tutti, l’unica che riconoscendo le ferite di chi soffre può aprire le porte a una soluzione politica condivisa.

Seguono le firme di importanti personalità rappresentative del mondo ebraico, palestinese e cristiano.


 
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