STORICITÀ DEI VANGELI (2) |
Lazzaro: miracolo o parabola? |
Il “segno” di Lazzaro dovrebbe far parte della cosiddetta Semeia-Quelle (cioè, dal greco e dal tedesco, «fonte dei segni»), appunto una fonte che ha raccolto una serie di segni/opere: grosso modo la trasformazione dell’acqua in vino a Cana (c. 2), la guarigione del figlio del funzionario regio (c. 4), la guarigione del paralitico alla piscina (c. 5), le 5000 persone sfamate (c. 6), il cieco nato (c. 9), e da ultimo Lazzaro. L’originaria conclusione di tale documento si trova in Gv 20,30s («Molti altri segni fece Gesù... ma non sono stati scritti in questo libro»). La struttura è in genere a tre stadi: il primo è costituito da un normale bisogno umano (vino, salute, cibo, vista, vita), a cui Gesù pone rimedio in modo prodigioso (secondo stadio). Ma si oltrepassa sempre l’opera miracolosa per penetrarne e scoprirne pienamente il significato: di conseguenza il terzo stadio del “segno” è sempre la rivelazione di una nuova dimensione della presenza divina in Gesù (B 16s). Come il “cieco nato” è una drammatizzazione del tema di Gesù come luce, così Lazzaro è una drammatizzazione sul tema di Gesù come vita e resurrezione (Brown). Lazzaro fratello? Rivolgendo ora la nostra attenzione all’effettivo racconto, ci si rende conto che la narrazione è piena di stranezze e di anomalie, che testimoniano la redazione travagliata del passo, a più livelli e stadi, a più riprese e sovrapposizioni, con tracce di cuciture e rammendi non ben camuffati (B 80). «C’era un malato, Lazzaro da Betania, il paese di Maria e di sua sorella Marta». In questo primo versetto di esordio di Gv 11 non è subito chiaro se Lazzaro sia effettivamente il fratello di Maria e di Marta; potrebbe essere semplicemente una persona del medesimo paese (perché non dire subito che è il fratello?). Designare un uomo dal suo luogo d’origine è una generale costumanza giudaica; la precisazione inoltre riguarda la località, e non il rapporto fra le due sorelle e Lazzaro (Schnackenburg). E il paese viene individuato mediante la figura di Maria; qui il riferimento a Marta sembra una sorta di aggiunta (B 80): viene messa in relazione con Maria in quanto sorella. Maria sembra essere il principale anello di congiunzione con Gesù, benché rispetto alla sorella svolga un ruolo minore nel dramma che segue (B 41); è una figura ben più conosciuta di quella di Lazzaro (Mateos-Barreto). Questa frase di apertura corrisponde molto bene alla situazione presupposta in Lc 10, 38-42: le due sorelle Marta e Maria ospitano Gesù in viaggio verso Gerusalemme; una di loro, Maria, assume nei confronti di Gesù un atteggiamento di maggior familiarità, con dispiacere della sorella. Il racconto lucano non fa alcuna menzione di un fratello Lazzaro né del nome del paese; ma sembra che entrambi i vangeli attingano a un’antica tradizione comune, meglio riflessa in questa frase iniziale che nel successivo dramma. Secondo Schnackenburg (e altri) tutte le annotazioni relative al “fratello” Lazzaro si possono attribuire all’evangelista (2.19.21.23.32.39); per il momento si può quindi cautamente suggerire che sia stato l’evangelista a collegare i tre personaggi in un’unica famiglia, facendo di Lazzaro il fratello di Maria e Marta (B 42). Comunque nel primo livello del racconto è centrale Maria, come emerge subito nel v. 2: «Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli», a cui si aggiunge con una certa contorsione stilistica la dipendente «il cui fratello Lazzaro era malato»: se non fosse per questo inciso – molto probabilmente all’interno di una glossa esplicativa aggiunta da un redattore successivo per distinguere questa Maria dalle molte donne con questo nome associate a Gesù – bisognerebbe attendere il v. 19 per sapere che Lazzaro è il fratello delle due donne; mentre la sua malattia è affermata ben 5 volte nei primi 6 versetti. Trascuriamo il riferimento piuttosto strano a un evento che deve ancora verificarsi (l’unzione suddetta viene narrata in Gv 12). È comunque impressionante la sottolineatura di Lazzaro malato; bisogna tener presente che spesso le resurrezioni antiche, anche bibliche, presuppongono un concetto di morte diverso dal nostro (la morte cerebrale irreversibile). Spesso si tratta di guarigioni/rianimazioni di persone prossime alla morte, di morenti sovente non-coscienti, o che soffrivano di malattie mortali (come la lebbra, la cui guarigione è equiparata a una resurrezione in 2Re 5,7). Tale opinione è inevitabilmente connessa alla concezione dell’epoca, in cui il confine tra la vita e la morte non era necessariamente quello attuale. Questo problema sorge per tutte le resurrezioni bibliche (B 94, che cita Kremer): quelle di Elia e di Eliseo, come quelle sinottiche di Lc 7 (Naim) e Mc 5 par. (Giairo), o di At 9 (Pietro) e At 20 (Paolo). «È per noi impossibile verificare storicamente se ad es. la figlia di Giairo fosse veramente morta o semplicemente in una sorta di coma che venne scambiato per morte; nel racconto Gesù stesso sembra minimizzare il miracolo asserendo che la bambina sta soltanto dormendo» (v. 39) (B 90, n. 9 che cita Rochais). Anche in Gv 11 Gesù afferma: «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio» (che potrebbe anche essere intesa come una malattia non mortale...): anche per Schnackenburg il primo significato (senza escluderne altri) immediato e palese è che tale malattia non conduca alla morte fisica. Maria e Marta. La preminenza di Maria è capovolta al v. 5: «Gesù amava (agapao) Marta e sua sorella e Lazzaro». Di Maria non viene nemmeno citato il nome. Abbiamo una prima indicazione dell’entrata preminente di Marta nella storia. Ella è menzionata per prima citandone il nome; Maria è soltanto «sua sorella» e Lazzaro è sorprendentemente al terzo posto (B 45). Ma di nuovo alla fine (dopo il v. 39, in cui viene nominata Marta per l’ultima volta con l’apposizione «sorella del morto»; essendo quasi alla fine è una strana e inutile ripetizione) ritornerà la preminenza di Maria: al v. 45 i «giudei» vengono descritti come coloro «che erano andati da Maria». Marta non viene neppure menzionata, benché dal v. 39 risulti chiaramente che anche lei è presente alla tomba. In generale si ha dunque l’impressione che i passi nei quali Marta ha una posizione di preminenza siano una sorta di intromissione (B 80). Solo un’annotazione ai vv. 11-12: «ma vado a (ri)svegliarlo». Nel greco secolare non è usato per «ridestare dai morti» (Brown). E anche il verbo «si salverà», o «guarirà» (v. 12) indica il ristabilirsi da una malattia; il sonno può descrivere lo stato di malattia e di incoscienza, ma un sonno riposante può significare anche che la crisi della malattia è passata (Brown). Si può cautamente cominciare a ipotizzare quanto segue: il primo livello del racconto sembra alludere alla guarigione/rianimazione di un morente-non-cosciente o di uno pseudo-morto (cioè non necessariamente morto nel senso moderno); ricordiamo che nell’antichità la persona in stato di coma, se non si risvegliava da tale stato, era destinata a morire, perché non esistevano le tecniche moderne di alimentazione e reidratazione. Dal v. 17 invece Gesù «trova» Lazzaro che era già da quattro giorni nel sepolcro, anche se non va direttamente né alla casa di Marta e Maria, né alla tomba. Il racconto prosegue dal v. 18 al 32 con le due sorelle che vengono incontro a Gesù, prima Marta e poi Maria, ripetendo la stessa frase: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». La ripetizione della frase è sospetta. Come in Mc 2,5 e 11 la ripetizione della frase «disse al paralitico» segnala l’inserzione della pericope sul perdono dei peccati, così la ripetizione della stessa frase al v. 21 e al v. 32 potrebbe segnalare che quanto è stato inserito nel frammezzo fa parte di un livello posteriore: appunto il dialogo super-teologico, ultra-redazionale fra Gesù e Marta sulla resurrezione, sulla vita eterna, sul non morire in eterno, ecc. (B 53s, 63). Facendo forse assegnamento sulla medesima tradizione alla base dell’episodio delle due sorelle in Lc 10, 38-42, l’evangelista sembra aver enfatizzato il ruolo di Marta in una storia originariamente imperniata su Maria. Marta è diventata il personaggio principale e il veicolo della sua particolare teologia (specialmente dell’escatologia realizzata e delle professioni cristologiche ai vv. 23-27, e dei riferimenti alla fede e alla gloria ai vv. 40.41b.42) (B 81). Il puzzle del testo-base. Se vogliamo avere un’idea del testo-base originario, i principali elementi da eliminare in quanto opera dell’evangelista sono rappresentati dalla discussione coi discepoli, dal dialogo centrale con Marta, dalla preghiera di Gesù al Padre (se non il v. 41, certamente la glossa esplicativa del v. 42), e i riferimenti sparsi ai «giudei». Abbiamo così un testo ricostruito, che Byrne riproduce integralmente a pp. 82-83, sottolineando il fatto veramente impressionante del consenso degli studiosi sul contenuto sostanziale di un tale racconto precedente. Byrne cerca anche di risalire ancora più indietro, oltre la Semeia-Quelle per ritrovare gli strati più antichi. A suo parere si può ipotizzare la fusione di tre tradizioni: 1) la tradizione di Marta e Maria (Lc 10): le due donne non solo hanno gli stessi nomi delle sorelle di Betania, ma si corrispondono anche per il carattere e l’attività loro attribuiti (B 85); 2) la donna che unge Gesù a Betania, nella casa di Simone «il lebbroso», ovviamente risanato (da Gesù?), in Mc 14 e Mt 26; eventualmente connessa con la peccatrice di Lc 7 (che però effettua l’unzione molto prima, non a Betania, e in casa di Simone «il fariseo»); 3) la tradizione di Lazzaro «ritornato dai morti», che ritroviamo nella parabola di Lc 16 (lo schema in B 94). Ci si può dunque chiedere se la figura del Lazzaro giovanneo possa avere qualche attinenza con il «Simone» che appare nei racconti dell’unzione come ospite e proprietario della casa. Se la tradizione riguardante la donna che unse i piedi a Gesù a Betania nella casa di Simone venne a un certo punto combinata con quella relativa all’ospitalità concessa a Gesù dalle due sorelle, non saremmo lontani dal riunire chiaramente i personaggi principali. Abbiamo già mostrato che le indicazioni di Gv 11 sul fatto che Lazzaro fosse in effetti il fratello di Marta e Maria, subentrano in forma di aggiunte inserite un po’ goffamente nel racconto preesistente (B 86). Ma che dire del nome di questa figura? L’originario Simone, che offerse il pranzo dell’unzione, diventò forse a un certo punto il «Lazzaro fratello di Maria e di Marta», l’uomo che Gesù fece «ritornare dai morti»? (B 86). Certo la parabola di Lc 16 difficilmente potrebbe offrire una base su cui costruire l’intero episodio giovanneo. Ma indica una tradizione che connette un possibile «ritorno dai morti» con il nome di Lazzaro. Inoltre il povero Lazzaro, «coperto di piaghe», si trova all’inizio in una condizione piuttosto simile alla lebbra. In Lc 16 è probabile che l’appendice (vv. 27-33) sia un’aggiunta lucana; comunque l’inserimento di nomi propri in una parabola non ha precedenti. Se è così, sembrerebbe che una tradizione prelucana di Lazzaro sia stata la fonte sia dell’aggiunta lucana alla parabola sia della storia di Lazzaro in Gv 11: quivi tale tradizione venne pure combinata con la tradizione di Marta e Maria e con la tradizione dell’unzione (B 93). Il fatto che Giovanni e Luca avessero in comune una tradizione di «Lazzaro ritornato dai morti» è in sintonia con altre connessioni che questi due vangeli presentano rispetto alla restante tradizione sinottica (B 87; ad es. in Lc e Gv l’unzione avviene ai piedi di Gesù, mentre in Mc e Mt sul suo capo). L’esistenza di questa tradizione iniziale su «Lazzaro ritornato dai morti», ora riflessa in Gv 11 e Lc 16, è proprio l’ultimo passo che possiamo fare con relativa certezza nella ricerca di un fondamento storico. Qualcosa deve aver fatto sorgere una tale tradizione; ma dobbiamo anche tener conto delle tendenze ad ingrandire alcuni miracoli rivisti dopo un certo tempo (B 93). Il nostro autore esclude quindi due posizioni estreme: a) Gesù risuscitò Lazzaro da morte esattamente nel modo descritto in Gv 11; b) l’intera storia è una pura invenzione dell’evangelista, o della primitiva comunità post-pasquale. Opta quindi, e a ragion veduta, per una soluzione intermedia: il miracolo di una guarigione operata dal Gesù storico (meglio, aggiungo io, di una rianimazione di uno pseudo-morto) è stato trasformato in un miracolo di resurrezione dai morti (da quattro giorni nel sepolcro) (B 88). Mentre non ci sono preclusioni per il valore storico del primo livello, il secondo viene a essere una sorta di parabola che apre la strada al terzo livello, quello redazionale della teologia dell’evangelista. È tramonto o trasfigurazione? Può anche essere una trasfigurazione, che però comporta un tramonto: ossia l’abbandono definitivo di una lettura interamente storicizzante dei Vangeli. Il riferimento principale è il lavoro di B. Byrne (abbr. B), Lazzaro. Una lettura di Giovanni 11, 1-46, San Paolo 1994, ma anche i commenti di R. E. Brown e Mateos-Barreto (Cittadella), di Dodd e Schnackenburg (Paideia), di Henneberry, Kremer, Rochais (citati in B.). Mauro Pedrazzoli |