ITALIA DIVISA
Le due libertà

L’Italia è divisa, si direbbe a volte irrimediabilmente, su piani umani molto profondi. Non è sempre chiaramente visibile dove passi la linea di divisione, chi è di qua e chi è di là, quale sia la consistenza quantitativa dell’una parte e dell’altra, ma la differenza di qualità tra le due posizioni è netta. La frattura politica e sociale in atto, evidenziata ed esasperata dall’ultimo omicidio politico, vittima Marco Biagi, oggetto esso stesso di orrendo sfruttamento politico, lo proclama ogni giorno ai nostri occhi.

Solidali, costituzionali.

Una parte d’Italia fa una opzione morale, di sicuro non sempre coerente, ma fondamentale, di tipo solidale: la mia libertà non è libera se non sei decentemente libero anche tu, se non lo siamo tutti. Perciò, nel mondo segnato da abissali iniquità crescenti, nessuno di noi è davvero libero. Quel che abbiamo da fare, più che godere e difendere una libertà godibile perché fornita di beni a sazietà, è volere e cercare una liberazione con e per le persone e i popoli meno liberi. 

È questa la sinistra? Sì e no. C’è una sinistra rivendicativa, che diventa destra appena ha ottenuto la sicurezza economica. Questa è solidale per tattica, egoista per etica e strategia. La diffusione, anche ingiusta, del benessere, la estingue. Ma c’è una sinistra etica, per le radici cristiane, o per la memoria dell’ingiustizia subita, che mantiene l’orrore per l’iniquità, anche quando vive nella tranquillità economica.

Per queste posizioni, lo stato di diritto, il controllo dei poteri forti, i princìpi costituzionali e i diritti umani, il diritto cosmopolitico, devono essere ben stabiliti e difesi nelle convinzioni e nelle azioni, perché sono la tutela delle libertà attualmente deboli nei fatti, ma grandi nel diritto inerente alle persone, a tutte le persone. Se fosse un poco più coerente in tutti i suoi appartenenti, questa parte sarebbe chiaramente tutta contro la guerra, il massimo trionfo dell’ingiustizia, mentre non lo è, e si impegnerebbe primariamente alla costruzione delle alternative alla guerra politiche, istituzionali, culturali, nella morale civile. Non è contro la guerra, perché tra le sue memorie c’è anche l’accettazione della violenza a fine di giustizia.

Chiamerei questa, complessivamente, la posizione dei “repubblicani”, o dei “politici”, nel senso etimologico delle due parole, oppure ancora dei “costituzionali”. Infatti, mentre tutti i partiti del centro-sinistra italiano vengono dall’esperienza della Resistenza e della Costituzione, nel centro-destra soltanto gli ex democristiani minoritari hanno questa sana origine, gli altri sono nati da radici assolutamente diverse, spurie.

Liberali privatisti.

Un’altra parte, oggi vincente, la chiamerei dei “particolaristi” (nel senso guicciardiniano), dei “privatisti”, ovvero dei “politici antipolitici” (individui singoli anti-polis, che usano però gli strumenti della polis). Essi ammirano chi sa affermarsi sugli altri, se non proprio con la violenza personale aperta e cruenta, con la forza dell’abilità, con la disinvolta capacità di prendere e accumulare, di realizzarsi nel possedere beni e nel determinare a proprio utile decisioni generali. La logica del “guai ai vinti” non fa loro orrore, ma è ammessa come legge dell’esistenza. La guerra, anche quella che uccide, all’ombra dei poteri statali e dei grandi interessi, non fa loro orrore, ed hanno pronti argomenti per ammetterla, approvarla, deciderla, finanziarla, trarne i dovuti profitti. Prontamente dimenticano che la guerra è morte data a persone, a tante reali persone, e dolori infiniti. Essi ritengono, in armonia con la loro visione alternativa ed eliminatoria dei rapporti umani, che la guerra prima o poi sia inevitabile. Sulla guerra, come sulle dinamiche economiche di grande estensione, questi individualisti non vedono più gli individui; si tratta di fenomeni generali, nei quali scompaiono le persone concrete. 

La politica, per questi cittadini, più che composizione di una società di persone uguali nei diritti, più che arte della convivenza giusta, è una gara ad eliminazione, che premia i forti e punisce deboli e meno capaci, o meno spregiudicati. Al fondo c’è un’idea guerresca della pluralità sociale: homo homini lupus, in definitiva. Primato della competizione. Le istituzioni poste a garanzia di tutti, specialmente dei deboli, possono essere usate e conquistate, diventano il trofeo dei vincitori del torneo sociale ad eliminazione, e sono piegate a giustificare e occultare il doping o la violenza sorda con cui hanno condotto la loro gara vincente. La libertà, intesa come espansione individuale senza termine, si traduce, nella lotta politica, in presa di ogni potere possibile («Prendi tutto», «Non fare prigionieri», sono gridi di guerra politica che abbiamo sentito), cioè in sostanziale totalitarismo (accumulo di tutti i poteri nelle stesse mani), entro una forma democratica, e in una prassi di dittatura della maggioranza. Tale diventa il principio di maggioranza inteso come diritto di vittoria, non limitato dalla divisione classica dei poteri (Montesquieu) e dal rispetto della minoranza, rispetto che è sostanza della democrazia.

Nella prima di queste due concezioni (che, ripeto, sono poli ideali ma ben reali, non sono quadri in cui facilmente classificare persone e gruppi) gli altri sono il fine della mia libertà; nella seconda sono la fine della mia libertà, che finisce dove comincia la loro (secondo il vecchio arido detto liberale), perciò su di essi devo prevalere se voglio essere sempre più libero.

La prima concezione è tipica di una sinistra democratica, che procederebbe verso la nonviolenza politica, se sviluppasse con coerenza i suoi semi migliori, e non lo fa ancora. La seconda è la concezione di destra, che potrebbe essere individualista e conservatrice moderata, ma in Italia è oggi smodatamente vorace e sovversiva delle regole più preziose.

Ecco, dipinte a rapidi e imprecisi tratti, due incompatibili idee di libertà in Italia e due serie di effetti duramente pratici discendenti da questa profonda differenza.

Un terreno comune?

È possibile vedere e consolidare un terreno comune, di qualche reciproca tolleranza e rispetto, un minimo comun denominatore di non mutua distruzione, tra queste due lontane radici umane? tra queste due alternative antropologiche?

La democrazia numerica è un primo livello di convivenza: contare le teste invece di tagliarle. Ma ci sono modi incruenti di tagliarle, svuotarle, riempirle di paglia, distoglierle dal vedere e capire, ubriacarle di egoismo, condurle ad obbedire credendosi libere...

Attraverso gradi intermedi di regole pattuite (le leggi, quella fondamentale e quelle ordinarie, quelle procedurali e quelle sostanziali) può crescere il piano comune alle due concezioni, che possono attenuare il loro contrasto essenziale. Quando tale attenuazione è abbastanza considerevole, si hanno le due forme moderate, che, alternandosi democraticamente, fanno il loro gioco senza distruggere e deformare le grandi regole comuni e una decente simbiosi sociale.

In Italia oggi il problema è molto difficile, perché abbiamo una sinistra che ha enormemente attenuato le sue caratteristiche antropologiche, prima che politiche, fino a suscitare forte scontento tra quanti vi si riconoscono; e abbiamo una destra aggressiva, estremista-di-centro, che, maneggiando astute illegalità, realizza in forma nuova, di regime proprietario aggressivo, quello che fu il culto fascista della forza. 

La nonviolenza, la nonmenzogna, il rigoroso non uccidere – poli orientativi di una politica umana che nessuno in Italia, neppure le chiese, hanno indicato bene come Aldo Capitini – sarebbero le leggi di convivenza entro le quali le diverse posizioni potrebbero vivere politicamente insieme. Se questa fosse l’etica comune, non ci sarebbe quella frattura profonda. Ma violenza, menzogna, disponibilità ad uccidere o far uccidere o lasciar uccidere, e in ogni caso dominare, sono mezzi sporchi e largamente usuali in tanta politica, anche di sinistra, anche nella prima idea di libertà sopra richiamata, ma innegabilmente di più nella seconda posizione sulla libertà. 

Sinistra, destra, violenza.

Ma, mentre tali mezzi sono in contraddizione con l’idea solidale e universale di libertà e di diritto, essi sono diretta e logica conseguenza della libertà pensata come espansione individuale di chi risponde solo a sé stesso e non ad altri. La violenza a sinistra è contraddizione, a destra è coerenza. 

Si potrebbe più facilmente dire il contrario: poiché la sinistra vuole innovare rispetto ad uno stato di cose ingiusto, o mai abbastanza giusto, essa è portata a forzare, perciò alla violenza. Ciò è accaduto molte volte. Ma proprio qui sta la contraddizione: volere un fine giusto con mezzi ingiusti. Fatale contraddizione, che impedisce di raggiungere quel fine. E anche questo è ampiamente confermato dalla storia. La destra, invece, in quanto difende situazioni stabilite sembra che mantenga un ordine senza fare violenza; ma difendere l’esistente che include ingiustizie è difendere violenze strutturali e a questo fine la destra coerentemente si serve anche, quando le è utile e necessaria, della violenza diretta (discriminatoria, poliziesca, militare). Anche questo è ampiamente dimostrato dai fatti.

Libertà dal fare violenza.

Questa spaccatura d’Italia, oggi molto evidente, può essere ricomposta? Il lavoro necessario 
in Italia, per ricostruire una base costituzionale e civile comune, è quanto mai difficile, perciò necessario. Chi testimonia e sostiene l’assoluto non uccidere, con tutti i suoi derivati, chi mira alla libertà dall’uccidere e dal far violenza (Gewaltfreiheit), costui prepara per tutti una unità giusta e aperta, che può reggere una dialettica politica anche la più vivace, tra innovazione e conservazione.

Questo lavoro esiste, formicolante sotto le luci violente della scena banale e brutale, e procede lento e serio. Chi lavora a livello spirituale, profondo, su di sé e nella comunicazione umana, costruisce questa umanizzazione. Ma sarà lavoro lungo, perché l’idea della vittoria, che distrugge la pace giusta, continua ad inquinare anche l’archetipo stesso della democrazia. L’Italia avrà da soffrire nel midollo della sua coscienza civile per quella divisione lacerante e potenzialmente mortale. Forse, la ricomparsa della politica armata e il programma governativo di ridurre lavoro, salute, istruzione e cultura – cioè la vita umana – a merci, daranno la sveglia alle coscienze dotate di sensibilità per ridiscutere l’ideologia liberista e le sue prassi distruttive.

Enrico Peyretti


 
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