FOLLIE
Più armi, più danni

Come dobbiamo valutare il progetto di legge che tende a favorire il porto di armi personali in Italia e quello che vuole inasprire il codice penale per i minorenni? Negli osservatori che approfondiscono la complessità dei fenomeni sociali desta un’estrema preoccupazione la deriva verso una risposta sempre più repressiva e violenta della società nei riguardi del crimine, una società peraltro sempre meno incline a ricercare ed eliminare le cause della devianza.

Sappiamo bene che il senso di insicurezza della popolazione dipende da molti fattori e non soltanto del tasso di criminalità. Più dei dati che quantificano e descrivono oggettivamente la criminalità, ha una forte correlazione con le emozioni della gente la spettacolarizzazione operata dai media di eventi delittuosi e di particolari aspetti del crimine.

Paradossalmente le stesse promesse dei politici di garantire “città più sicure”, suonando agli orecchi del pubblico come una conferma dell’esistenza di un elevato pericolo criminale, aumentano il senso di insicurezza. Anche il maggior grado di benessere della borghesia medio-alta genera ansia per la possibile perdita dei beni posseduti.

D’altra parte sono evidentissime le cause sociali che influiscono sul tasso reale di criminalità: i delinquenti appartengono in gran parte alle fasce di popolazione emarginata in una società sempre più competitiva e orientata al “successo”. Una reale condizione di emarginazione – ma anche la percezione soggettiva di una sconfitta nella corsa al successo – è la molla principale che spinge settori delle giovani generazioni dei paesi a economia liberista verso la delinquenza.

Se varare provvedimenti che tendano a un reale contenimento del crimine può essere una saggia politica dei governanti, perniciosa si può rivelare la doppia strategia che da una parte insemina il senso di insicurezza e dall’altra cerca di guadagnare il favore del pubblico (un pubblico sempre meno autonomo nei giudizi e sempre più dipendente dalle “figure autorevoli”) con l’emanazione di norme repressive e violente nei riguardi della criminalità.

Per capire il grave pericolo che può comportare un approccio più “duro” alla criminalità e una maggiore diffusione delle armi di difesa personale, basta guardare a ciò che avviene negli Stati Uniti.

Non tutti sanno che gli Stati Uniti avevano in pratica abolito la pena di morte tra gli anni Sessanta e Settanta e che nei decenni successivi la ripresa esponenziale delle esecuzioni capitali è avvenuta di pari passo con l’elezione alle cariche politiche, amministrative e giudiziarie di personaggi che in campagna elettorale fomentavano il senso di insicurezza della gente promettendo risposte sempre più dure al crimine, a cominciare dalle esecuzioni capitali. L’elevato “rendimento elettorale” della pena di morte indusse anche i democratici, dopo la sconfitta dell’abolizionista Dukakis, a cominciare da Clinton, a imitare i repubblicani rinunciando alla loro consolidata opposizione al patibolo.

È nota la gran diffusione delle armi personali negli Stati Uniti, dalle pistole ai fucili mitragliatori da guerra: vi è quasi un’arma personale per ogni cittadino, uomo o donna, lattanti compresi. In alcuni stati è vietato soltanto portare in giro armi nascoste. Si tratta di armi cariche che finiscono con lo sparare, ferire o uccidere. In confronto con le centinaia di omicidi che avvengono annualmente in Italia, vi sono quindicimila omicidi l’anno negli Usa (e negli anni scorsi si è arrivati a oltre ventimila). Si uccide per futili motivi: giovanissimi sparano a sangue freddo per impossessarsi di un’automobile, di un portafogli o di un po’ di droga. Coloro che entrano negli appartamenti per rubare sono armati e non esitano a far fuoco non solo a un minimo cenno di resistenza degli occupanti ma anche in modo preventivo. Come non vedere nel disprezzo per la vita umana mostrato dai piccoli delinquenti il riflesso dei sentimenti di una popolazione violenta e armata? Il ricco che spara e uccide “per legittima difesa” se la passa senza nessuna conseguenza, ma molto spesso spara per primo il poveraccio, il piccolo delinquente che sa di rischiare comunque la vita.

È evidente che in Italia una maggiore diffusione delle armi personali farebbe fare un “salto di qualità” ai criminali comuni, quelli che attualmente attentano soltanto ai beni del prossimo e che non si sognerebbero di uccidere. Non ne guadagnerebbe la nostra civiltà ma soltanto i fabbricanti e i mercanti di armi. Quale sarebbe il passo successivo? Forse adottare la pena di morte per adulti e minorenni come avviene negli Usa?

Negli Stati Uniti una diminuzione del (sempre elevatissimo) tasso di criminalità si è potuto ottenere negli ultimi anni soltanto costruendo velocemente enormi prigioni e incarcerando un’elevata percentuale della popolazione (costituita soprattutto da neri e ispanici). A partire dai 380 mila detenuti degli anni Settanta si è superata nel 2000 la soglia dei due milioni (senza contare i minorenni ristretti), che possiamo confrontare con i 50 mila detenuti italiani. Se si aggiungono coloro che sono fuori sulla parola o sotto sorveglianza arriviamo a quasi sei milioni di cittadini in regime penale su 275 milioni di persone.

Ora in America il problema carcerario scoppia e le prigioni costano troppo (più di quanto sarebbero costati interventi nel sociale diretti alla prevenzione del crimine). Il «Washington Post» si è recentemente domandato con grande preoccupazione che cosa succederà quando verranno messi fuori gli attuali detenuti, esacerbati da condizioni di detenzione durissime e formati alla scuola del crimine dai peggiori compagni di prigionia.

Togliere di mezzo le armi? Ogni tentativo di ridurre la circolazione della armi personali è stato velleitario e sempre respinto sul nascere anche sotto l’amministrazione Clinton. Non verrà ripetuto. In America armare la popolazione si è rivelato un processo irreversibile, una calamità irreversibile.

Grazia Guaschino


 
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