Antisemitismo nel Nuovo Testamento |
Storia della passione di Gesù nei vangeli: tutti ricordiamo la drammatica scena tra Pilato, i sommi sacerdoti, gli anziani e il popolo che, “sobillato”, sceglie di liberare Barabba al posto di Gesù. Solo nel racconto di Matteo c’è un passaggio terribile che, fin da ragazzina, ascoltavo con stupore e disagio: è il v. 25 «E tutto il popolo rispose: “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli”». Erano tempi pre-conciliari e forse i commenti nelle omelie e gli altri momenti della liturgia della passione non avevano scrupoli di catechesi antigiudaica. Questa folla, anzi tutto un popolo inferocito, esprimeva nei confronti di Gesù un odio assurdo che non capivo. Prima di questa Pasqua, in due diversi contesti, ho seguito la stessa narrazione di Matteo e mi sono accorta di essere in grado di purificarla da questa immagine di odio, dando una collocazione storica non solo ai sommi sacerdoti e agli anziani di Israele ma anche al modo di Matteo, e solo suo, di raccontare questo popolo. Lo devo a due autori, Rolf Rendtorff e Erich Zenger, evangelico il primo, cattolico il secondo, entrambi cristiani tedeschi, docenti di teologia e studiosi biblici; hanno scritto rispettivamente Cristiani ed ebrei oggi e Il primo testamento, appaiati nella sostanza. Zenger analizza la prassi liturgica cattolica ancora in atto e la teologia biblica dell’ultimo secolo; Rendtorff concentra le sue tre lezioni sul rapporto cristiani-ebrei e sulla comprensione deviata del Primo Testamento da parte dei cristiani. Mi ha colpito la coincidenza delle due ricerche e la forza che esercitano sulla coscienza del cristiano credente, oggi. La chiesa cristiana, fin dai primi secoli, ha diseredato in varie forme Israele, dichiarando che la Bibbia degli ebrei apparteneva ormai solo ai cristiani. Non avendo riconosciuto Gesù come messia, il Messia unico e definitivo, atteso dai profeti, gli ebrei avevano in un certo senso indebolito la relazione con Dio. Venne così sottratto agli ebrei un elemento determinante della loro identità, quasi «sancita la loro non esistenza religiosa» (Rendtorff). Di conseguenza i cristiani hanno stabilito i criteri di lettura del Primo Testamento e le altre interpretazioni non vengono prese in considerazione. Siamo noi cristiani il nuovo Israele, la chiesa è il nuovo popolo di Dio, il comandamento dell’amore di Gesù (Mc 12,29) è nuovo rispetto all’ebraismo. Rendtorff, dimostrata la illegittimità, la violenza e le conseguenze culturali di questa catechesi, propone una diversa mentalità: Gesù è pienamente ebreo e non si può comprendere la sua relazione con Dio e il suo annuncio sul Padre misconoscendo questo. Solo perché il Primo Testamento è valido per gli ebrei, può essere valido anche per i cristiani; è un libro in sé compiuto che non ha bisogno della conferma del Secondo. È una Scrittura autonoma che per gli ebrei si completa nella Mishnah (Torah orale) e prosegue con il Talmud. Il Secondo Testamento si innesta attraverso Gesù sul Primo e senza questo non sta in piedi. Si conferma così la definizione degli ebrei come nostri «fratelli maggiori»; idea che dopo il Concilio Vaticano II, compare sempre più spesso anche nel mondo cattolico. Zenger centra la sua attenzione sulle violenze al Primo Testamento nella prassi liturgica. Osserva ad esempio come nel Credo apostolico e nei quattro canoni della preghiera eucaristica si esclude Israele dalla storia della salvezza. In queste preghiere che si ripetono in ogni messa e che negli ultimi decenni l’abbandono del latino ha reso comprensibili da tutti nei contenuti, si dicono mezze verità bibliche e viene dimenticato quel che Dio ha operato fin dai patriarchi nella storia d’Israele. L’uso liturgico dei Salmi, privati del contesto in cui si sono formati, perfino emendati di alcune parti, risente di questo costume. Domenica dopo domenica la liturgia ribadisce che il Primo Testamento è la promessa e il Secondo è di questa promessa l’adempimento. Dietro queste prassi liturgiche che il Concilio Vaticano II ha solo in parte emendato, emerge il pensiero dei teologi neotestamentari. Le loro posizioni mi portano echi di omelie ascoltate in chiese tra Verona e Roma negli anni Cinquanta e Sessanta e poi qui in Piemonte fino alla fine degli anni Ottanta. Tento una sintesi di queste posizioni, che corrispondono a quelle di ambito evangelico, esaminate da Rendtorff. Il Dio dei cristiani non è il Dio d’Israele, perché c’è di mezzo la salvezza portata da Gesù; Gesù ha preso le distanze dalla Torah e dalla sua prassi. Il Primo Testamento è soltanto preistoria e preparazione del Secondo; gli ebrei hanno perso il loro Testamento, sono rimasti indietro, rifiutando Gesù. La loro alleanza con Dio è antiquata perché è alleanza nella legge, mentre la nostra è nuova perché attraverso Gesù. Significativo il destino di alcuni libri del Primo Testamento. Ai libri sapienziali si guarda con sospetto, perché a-cristiani. Il Qoelet è marginale proprio per il suo modo non cristiano d’intendere Dio; Giobbe non può rappresentare un guida per la fede cristiana. Si forma anche un cliché ancora operante: il Dio del Primo Testamento è un Dio violento e vendicativo, non può esser il Dio di Gesù. Come Rendtorff, anche Zenger introduce proposte di nuove vie da percorrere. È prioritario per i cristiani tutti, pastori e laici, accostare con un approccio storico di contestualizzazione le Scritture ebraiche, per assaporarne il miele: scopriranno così la vera relazione che il popolo ebreo ha tessuto con il suo Dio, che è il Dio di Gesù, non un altro. Ai cristiani spetta il recupero della lettura ebraica del Primo Testamento: comprenderanno meglio ciò che Gesù chiede loro. Tutto questo richiede studio e fatica, perché non è facile uscire da luoghi comuni religiosi che si sono impressi nel nostro essere profondo, nel nostro modo di pregare. Affascinante è poi, a mio avviso, la prospettiva che ci si apre: libertà e rispetto nei confronti del Primo Testamento e del popolo che lo ha prodotto. Il cammino di fede che gli ebrei hanno compiuto, prima e dopo Gesù, diventa un’esperienza autonoma e preziosa, ricca di stimoli anche per noi. Ci succede, come quando entriamo con questo spirito nel Buddhismo o nell’Islam, di provare lo stupore gioioso che le esperienze autentiche dello spirito umano comunicano. Inoltre il linguaggio del Primo Testamento è quello delle nostre radici: il Primo Testamento narra dell’operare di Dio nella storia con parole e simboli che ci sono noti. Mi è toccata, proprio in questi giorni, l’esperienza di preparare per la comunità il salmo 22, usando il commento e l’esegesi di Gianfranco Ravasi, biblista cattolico che lavora in questa direzione di ricerca. Si resta storditi dallo spessore della lettura ebraica del salmo e si capisce perché le prime comunità cristiane abbiano narrato Gesù crocifisso intessendovi il salmo 22. Con la sua carica altissima di sofferenza e di fiducia nel Dio di Israele è un perfetto specchio della passione e della fede di Gesù; un orante ebreo, e Gesù certamente lo era, sul patibolo, abbandonato da Dio e dagli uomini, poteva davvero invocare Dio così. Sarebbe la stessa cosa se, come si è fatto dai padri della chiesa in poi, si leggesse il salmo solo come annuncio letterale, come profezia della passione? Tullia Chiarioni • Rolf Rendtorff, Cristiani ed ebrei oggi, Claudiana, Torino 1999, pp. 144, € 9,81. • Erich Zenger, Il primo Testamento. La Bibbia ebraica e i cristiani, Queriniana, Bologna 1997, pp. 248, € 16,53. |