LA CHIESA SI RESTRINGE |
Barbero? Meglio don |
Cosa avrebbe da guadagnarci la chiesa se spingesse la sua riprovazione di don Franco Barbero fino alla sospensione a divinis? Me lo sono chiesto ascoltando la notizia della manifestazione di solidarietà alla coppia gay, discriminata sul lavoro a Castelnuovo don Bosco. Barbero era l’unico prete presente, certo non l’unico cristiano. Lo stesso si dica per alcune altre realtà marginali e marginalizzate. Qualora don Franco non fosse più don lui forse non ci perderebbe molto, ma la chiesa abbandonerebbe uno dei suoi punti avanzati di presenza evangelica.
Questo solo vorrei aggiungere alla molte polemiche sollevate dal caso di questo prete pastoralmente scomodo e dottrinariamente avventato. Non necessariamente essere e restare prete è un diritto per il cristiano che tale sia stato ordinato al servizio della comunità ecclesiale. Se perde la fiducia dei suoi superiori e dei suoi compagni di fede è meglio che lasci, senza che ciò comporti una sua diminuzione né umana, né cristiana. Forse anzi, l’autentico seguace del Cristo, che fu rabbi, profeta, messia, figlio di Davide e di Dio, incarnazione storica del Verbo, ma pur sempre e solo rigorosamente e semplicemente ebreo, non è né papa, né cardinale, né vescovo, né monsignore o prete, ma laico, laico impegnato a testimoniare laicamente la fede nella vita e nella storia. Col che non tutto è chiuso, perché, al di là dell’essere o non essere prete del singolo, c’è il problema della presenza pastorale della chiesa e della sua vita comunitaria. Chi si deve chiedere a che pro avere preti sul confine o anche oltre il confine non è Barbero soltanto, è la sua chiesa. Può essa davvero fare a meno di portavoce, scomodi ma pur sempre significativi, là dove quelli comodi sono al più disposti a passare solo come meteore? Può la chiesa scrollarsi di dosso il pungolo delle “comunità marginali”, senza impoverire se stessa in modo preoccupante? Solo nel clima polemico di una vivace discussione teologica si può dire che «Barbero non è più cristiano» (anche se sarebbe in ogni caso più corretto eventualmente parlare di eresia), perché non fa proprie le formulazioni classiche della teologia trinitaria, della cristologia, dell’ecclesiologia e della dottrina sacramentale. Nessuna di queste formule, tradizionalmente venerabili e nel loro nucleo profondo di grande valore, è a rigore puntualmente evangelica, nessuna è storicamente e culturalmente irreformabile, nessuna è rimasta fissa nel tempo, nessuna è oggi esente da discussione nell’ambito della teologia. Certo l’ortodossia non va ridotta all’ortoprassi, come sembra suggerire Gianfranco Accattino nel suo bell’intervento sul numero scorso, ma, siccome siamo uomini e nessuno è perfetto, il vangelo ci indica con chiarezza la sua preferenza: «Un uomo aveva due figli. Ordinò loro di andare nella vigna. Il primo disse sì e non si mosse. Il secondo disse no, ma vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?» (Mt 21, 28-31). A.B. |