OTTIMISMO |
Bona tempora currunt |
Nei numeri precedenti (il foglio, nn. 290, 291, 292) si erano fornite alcune notizie significative sugli anni del dopoguerra e sui primi anni Sessanta. Non c’è nulla da rimpiangere. Tuttavia è lecito porci qualche domanda. I fatti denunciati sono attribuibili alle contingenze storiche o denotano una mancanza di fede e moralità? E ora c’è meno fede e moralità? Ora, giustamente, ci si lamenta che l’Italia non contribuisca in maniera più concreta alla lotta contro la miseria. Ma per fortuna non manca chi si reca nel Sud del mondo per aiutare i più poveri. Nel 1935, invece, gli italiani si sottoponevano a duri sacrifici per... massacrare meglio i popoli poveri. A Roma, in un sol giorno, «si calcola che gli anelli nuziali donati alla Patria hanno superato il numero di 250mila, di cui oltre 100mila deposti all’altare della Patria». Nell’Agro Pontino il Duce viene assediato da persone entusiaste che si strappano catenine, orecchini e gemelli d’oro; anche i vescovi di Gaeta e di Terracina si tolgono croci pettorali e anelli episcopali: «Il Duce si china verso gli assedianti, prende i doni, li getta nella cassa, ma non arriva in tempo ad afferrare tutto quanto viene offerto, e le autorità del seguito gli danno mano» («La Stampa», 19-12-1935). Io ho sotto gli occhi una ricevuta del 27-12-1935, XIII: i miei genitori, che pure non erano dei fanatici, avevano donato alla patria, oltre alle due vere d’oro, «una catena oro con medaglione; un paio gemelli oro, un anello oro». Oggi c’è più moralità. Ora si fanno le marce per la pace e anche la chiesa cattolica condanna la guerra. Allora il quotidiano cattolico «L’Italia» giustificava senza riserve l’entrata in guerra dell’Italia «fiera, compatta, decisa ad assicurarsi un luminoso avvenire» (11-6-1940). Ancora negli anni Cinquanta, un quotato testo di teologia morale (Mausbach, vol. III, p. 124) affermava che una guerra poteva essere «giustamente scatenata a causa di gravi offese subite dallo Stato o dai suoi rappresentanti». La morale cattolica faceva proprio il codice d’onore della mafia. Ma la morale familiare e sessuale non era più rigorosa di adesso? Agli inizi del ’900 metà dei maschi aveva contratto nella case “di malaffare” un’infezione venerea, trasmessa poi alle mogli (Boneschi, Senso, Mondadori, p. 25). In Italia, negli anni Trenta «l’aborto era la forma di pianificazione familiare più diffusa» (Duby-Perrot, Storia delle donne. Il Novecento, Laterza 1992, p. 157). Secondo don Milani (Esperienze pastorali, Libreria editrice fiorentina 1974, p. 101) dall’esame delle nascite dal 1935 al 1952 nella parrocchia di San Donato, si deduce che la quasi totalità dei fidanzati «aveva abusato del fidanzamento». Eppure la grande maggioranza dei preti (per fortuna c’era qualche eccezione tra i preti in odore di eresia) batteva quasi solo sui problemi sessuali. Le questioni riguardanti la solidarietà e la pace erano trattate marginalmente. Occorre aggiungere che oggi si cerca (almeno da parte dei più sensibili) di capire i problemi psicologici delle persone in difficoltà. La depressione è considerata una malattia, il disagio giovanile un problema serio. Una volta chi era triste senza un motivo concreto aveva solo «delle storie» e nei confronti di giovani tutt’altro che beati si ripeteva la litania «beata gioventù!». Oggi c’è più fede. «Per moltissimi e evidenti argomenti come le profezie adempiute, la frequenza dei miracoli, la rapida diffusione della fede anche in mezzo a nemici e ostacoli gravissimi, la testimonianza dei martiri e altre cose simili, è manifesto che l’unica e vera religione è quella fondata da Gesù Cristo stesso e affidata alla sua Chiesa per essere custodita e diffusa» (Gregorio XVI, Immortale Dei, n. 4). La fede è dunque qualcosa che si può dimostrare scientificamente. Chi la rifiuta è o malvagio o imbecille. Ricordo le lezioni di religione impartitemi dai padri gesuiti nei primi anni Cinquanta: pochissima Bibbia, molta “scienza”, moltissima filosofia. Dall’esistenza di Dio ai prodigi dell’Esodo, dalla creazione del mondo ai miracoli di Gesù, fino a tutti i miracoli di tutti i santi, tutto era dimostrabile. Storicità, autenticità, veracità delle Scritture; esame minuzioso delle guarigioni di Lourdes; le cinque vie di San Tommaso; tutto era sottoposto alla ferrea logica aristotelica. Ricordo che, nell’ora di religione, ci avevano fatto imparare una filastrocca per preservarci da possibili errori nel “sillogizzare”: «Tre sempre siano i termini: medio, maggior, minore / ed essi nel concluder non mutin di valore...». Ma come era poi vissuta nella vita di chiesa questa fede fondata sulla certezza matematica? Per quanto riguarda battesimi, matrimoni, funerali, tutti apparivano cattolicissimi. Poi risultava che i maschi adulti facevano la comunione poche volte l’anno, e questo nel migliore dei casi. Chi non ricorda che, a messa, gli uomini entravano tardi e si fermavano in fondo per scappare al più presto? Un osservatore esterno avrebbe dedotto che «la religione è roba da ragazzi e da donne; la confessione serve per fare la comunione e la comunione serve per celebrare le feste; la religione è solo adempimento di rito; l’olio santo è un sacramento spaventoso, il buon figliolo cura che i genitori non s’accorgano di riceverlo; la morte stessa è un salto nel buio: in conclusione i grandi non credono all’al di là perché curano che i loro cari vi si incamminino nell’incoscienza» ( Milani, op. cit., pp. 119-21). Ora, per chi crede, la fede viene vissuta come un dono, e l’accettazione del dono si esprime mediante l’ascolto della Parola, la partecipazione al banchetto eucaristico, la disponibilità a vivere concretamente le beatitudini. Da questo punto di vista, a me pare che ci sia più fede oggi, nel 2002. Dario Oitana |