UNA DISTINZIONE CONTESTATA |
Destra, sinistra e democrazia |
Nel leggere sull’ultimo numero di questo giornale un articolo di Enrico Peyretti nel quale si sostiene che «la violenza a sinistra è contraddizione, a destra è coerenza», si sono innanzitutto stagliate di fronte a me l’immagine di Luigi Einaudi e quella di Benedetto Croce, figure da cui trasuda un’innegabile e coerente violenza; ed accanto al loro si sono affacciati alla mia memoria anche numerosi volti di elettori della destra che mi è capitato di incontrare e conoscere: uomini nei quali mi era parso dimorare un’indiscutibile inclinazione verso metodi nonviolenti, ma che ora, dopo questa lapidaria sentenza di Peyretti, sarò forse costretto a guardare sotto una luce affatto diversa. Le categorie di destra e sinistra, la vicenda dei loro significati e dei loro rapporti rappresentano una questione troppo articolata e complessa perché si ceda alla tentazione di delucidarla nel lampo di un proclama. In un aureo e fortunato libretto apparso pochi anni fa, Destra e sinistra , Norberto Bobbio (che non ha mai tenuto celate le sue inclinazioni verso la sinistra politica) scriveva: «C’è chi ha sostenuto che il tratto caratteristico della sinistra è la nonviolenza. Ma la rinuncia a usare la violenza per conquistare ed esercitare il potere è la caratteristica del metodo democratico [...]. Prova ne sia che entro un sistema democratico, è possibile e legittima l’alternanza fra governi di destra e di sinistra. Inoltre, il definire la sinistra mediante la nonviolenza porta di necessità a identificare la destra col governo della violenza, il che è proprio [...] della destra estrema, non della destra genericamente intesa». Quando si invoca il metodo democratico, come Peyretti fa, non è poi del tutto coerente Gli innamorati della nonviolenza, così pronti ad avvertire (giustamente, peraltro) le seduzioni dell’ho’o pono pono hawaiano, faticano talvolta a rendersi conto che la democrazia rappresenta il più vasto ed articolato esperimento mai messo in piedi di risoluzione nonviolenta dei conflitti. Parlando del mondo greco Franco Rella ha saputo dirlo come meglio forse non si potrebbe, definendo la democrazia ateniese: «il primo tentativo [...] di tenere insieme e di agire i conflitti senza risolverli coattivamente, ma cercando di strutturare la società con l’energia che essi esprimono» – precisamente questo equilibrio, non altro, è il punto archimedeo che la nonviolenza insegue e sulla base del quale aspira ad erigere il suo dominio pacifico. Ma si tratta, ovviamente, di un equilibrio accostabile solo a patto di non eludere la fitta complessità posta sulla strada che ad esso conduce. Certo, la democrazia è forse il più imperfetto dei sistemi, in essa forza e fragilità si congiungono; occorre continuamente vigilare sulla sua “salute”, lottare per impedirle di divenire larvato autoritarismo, interrogarsi sul grado di affidabilità delle sue istituzioni e dei suoi poteri. Ma ripartire, con adolescenziale manicheismo, il mondo in buoni e cattivi, in violenti e nonviolenti a seconda di un voto democraticamente espresso, è esercizio che conserva ben poco dell’accurata indagine politica e quasi tutto dell’irrigidimento dell’ideologia. Non è facile persuadersi che nel cuore della nonviolenza trovino posto – quand’anche idealmente – contrapposizioni che richiamano polarità nette ed assolute, ritagliate sull’esempio di catastrofici scontri tra Figli della Luce e Figli delle Tenebre; se non altro perché, così facendo, il rischio che a vincere possano essere poi proprio questi ultimi crescerebbe in forme esponenziali. Massimiliano Fortuna
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