Editoriale

Il 12 maggio ci siamo incontrati a Genova: gli amici del «Gallo» di Genova e di Milano, «Dialoghi» di Lugano e noi del foglio, una ventina di persone. Il tema centrale su cui si è concentrata la nostra attenzione è stato l’aspetto antropologico del modello di uomo vincente rappresentato da Berlusconi. Come filo conduttore è stata utilizzata una proposta di Peyretti, che ha evidenziato alcuni punti di maggiore interesse: dalla politica alla società civile, alla militanza culturale... A partire da questa discussione, è nata la proposta di ritrovarci in autunno per un convegno tra le riviste come le nostre. Ne daremo conto a settembre.

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La parte di società italiana che elegge l’uomo rappresentativo della ricchezza materiale corrisponde a un basso modello di umanità, consistente nell’avere, possedere, potere.

In democrazia la competizione numerica nella ricerca del potere conduce ad assecondare le inclinazioni umane più facili: vedi la caccia all’audience che ha imbarbarito il mezzo televisivo, luogo privilegiato della “democratura”. In democrazia, piuttosto che in forme più violente, emergono tutti i limiti della politica.

La politica, secondo Enrico Peyretti, è secondaria rispetto alla società, di cui rappresenta il livello morale, la gerarchia di valori. È la società che guida la politica, non viceversa. Occorre dunque concentrarsi in un lavoro di formazione e di
riflessione, in una opposizione culturale. Esemplare l’impegno di Dossetti: dalla politica alla cultura, da questa alla religione, per tornare di nuovo alla politica, nel momento del rischio democratico.

La polis è una convivenza non elettiva: i migliori e i peggiori convivono in relazione, senza scelta. In che modo resistere al peggio? La domanda è cruciale perché la politica, prima ancora di poter realizzare il bene comune, è difesa della società dal male. La politica in prevalenza usa il male contro il male, con un pessimismo disperato. Eppure, o la politica è pace, oppure non è più l’arte della convivenza.

Aldo Bodrato ritiene che il presente, in termini di occupazione del potere, non si discosti molto dal passato, o almeno da un certo passato, anche se la figura demagogica che coagula oggi il consenso non tende più all’immagine dell’uomo forte, che promette prestigio a costo di lacrime e sangue, ma a quella del jocker che offre panem et circenses a prezzi stracciati e senza sacrifici.

Se poi si vuole parlare di società e politica in termini dicotomici di bene e di male, bisogna riconoscere che nella storia del mondo il male, coi suoi conflitti interni e l’impellente bisogno di regole in grado di limitarne gli effetti autodistruttivi, ha sempre avuto il dominio del campo. Il bene, che non può essere stabilito per legge senza tradursi nel “pessimo”, è fondamentalmente impolitico. Entra sullo scenario della storia o come ricerca del male minore o come resistenza estrema alle forme più aggressive e violente del potere.

Alla politica, secondo Bodrato, non si può chiedere la realizzazione del bene, ma il controllo del male, così da mantenerlo al più basso livello possibile. Ecco perché l’intellettuale e la cultura, che non si arrendono all’esistente, ma cercano e propongono ad esso alternative, debbono difendere la loro autonomia dal politico. La loro funzione è quella di esserne la coscienza critica, la riserva di pensiero capace di mantenere aperta la porta alla diversità e alla speranza che la realtà della storia possa dar vita od ospitalità a un barlume di bene.

La discussione ha poi toccato il tema dei danni dei mass media nella formazione delle nuove generazioni: tutti convengono che la pubblicità martellante condiziona i nostri bisogni creandone di inutili e anche dannosi.

Per Maisa Milazzo la situazione è aggravata da un nuovo modello di scuola che non ha un progetto educativo condiviso e che dirige anche qui la sua attenzione verso una forma privatistica piuttosto che statale.

Inoltre il nostro Presidente del Consiglio affascina, viene presentato come un mito, ma non impersona un modello di stratega politico, piuttosto del padrone che non si ferma neanche davanti ai valori e ai beni istituzionali (vedi i conflitti vari, e non solo con la magistratura).

Carlo Carozzo aggiunge che un modello di società come la nostra basato sulla competizione sfrenata crea il terreno facile perché «vadano a farsi benedire» tutti i valori della solidarietà e della convivenza civile. L’individualismo è una lotta mascherata, la competizione come filo conduttore della società ha diffuso un individualismo di massa. In queste condizioni, s’interiorizza la percezione di vivere in una società basata sulla lotta, e così tutto il male può essere fatto digerire più facilmente.

La regola fondamentale di questo modello è l’assenza di regole, che permette a ognuno di raggiungere i propri obiettivi in qualunque modo. È la condizione della sopravvivenza che giustifica tutto. Giorgio Chiaffarino conclude che, insieme ad altre forme, sono le regole a limitare il potere.

Mauro Pedrazzoli viene assalito da una forma di pessimismo affermando che dobbiamo rassegnarci a convivere con una società schizofrenica perché non ne esiste un’altra e le leggi di mercato condizionano il nostro agire: nei rapporti personali dobbiamo escludere la logica dello scambio e del mercato, ma nei rapporti impersonali dobbiamo incassare che la società, il lavoro e la produzione siano regolati dall’economia e dalla finanza.

Su questo tema Renzo Bozzo ricorda che il mondo degli affari è molto più attivo perché si unisce su progettualità concrete, mentre il mondo degli ideali ha più difficoltà ad aggregarsi.

Peyretti conclude sostenendo che via d’uscita non è la disgregazione della società in comunità elettive, su base di scelta dei simili, ma la politica ricostruita come lotta nonviolenta attiva, giustizia coi mezzi della giustizia, pace coi mezzi della pace. Ne siamo lontani? L’importante è mai rassegnarsi.

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