CELIBATO OBBLIGATORIO
Figlio della chiesa e di padre ignoto

Le attuali infelici circostanze non sono forse le più adatte per una discussione appropriata sul celibato obbligatorio dei preti. Se ne è perfino ipotizzata l’abolizione come male minore.

Ma il tema è un po’ più serio e meriterebbe una diversa attenzione. Tema non facile neppure prima, soprattutto perché da secoli nella chiesa si sono impegnati a farlo salire sui trampoli malfermi della retorica. Così che da quella posizione traballante ha sempre suscitato riverenza e ironia, soggezione e scetticismo.

Meglio il matrimonio o il celibato?

C’è però un problema ancor più generale di quella legge. Un interrogativo emozionante. Nella chiesa che cosa è meglio, che cosa è superiore, il matrimonio o il celibato? Dopo un attimo di apnea, si vorrebbe replicare con un’altra domanda. Ma in particolare per chi? 

La risposta è assoluta. Decisamente imparziale, si potrebbe dire. «Se qualcuno dirà che il matrimonio è da preferirsi alla verginità o al celibato e che non è cosa migliore e più felice rimanere nella verginità e nel celibato che unirsi in matrimonio, sia anatema» (Denziger 1810). Così il Concilio di Trento, al canone 10 della sessione 24, che tratta proprio del sacramento del matrimonio. Siamo nel 1563. Tutti sanno che «anatema» vuol dire maledetto e scomunicato. Come si vede c’è poco da scherzare. Dopo più di quattro secoli quel dito minaccioso è ancora puntato contro chi osa sconvolgere l’ordine costituito.

Pio XII nell’enciclica Sacra virginitas (1954) denuncia «un errore pericoloso». Quale? Quello di fare del matrimonio «uno strumento più efficace ancora che la verginità, per unire le anime a Dio, poiché il matrimonio cristiano è un sacramento, mentre la verginità non lo è» (Denziger 3911). E conclude che «le anime consacrate alla castità perfetta non impoveriscono per questo la propria personalità umana, poiché ricevono da Dio stesso un soccorso spirituale immensamente più efficace che il mutuo aiuto degli sposi».

Così la classifica dovrebbe essere definitiva e la discussione chiusa.

Si dà però il caso che si faccia risalire al Nuovo Testamento la responsabilità d’aver fatto scendere le quotazioni del matrimonio. Converrà sincerarsene, e controllare se sulla questione vi si trovino tracce di condanne o di scomuniche. Lo stesso testo del Concilio di Trento sopra citato rimanda a Mt 19 e a 1Cor 7.

Gesù disse: «Chi può comprendere, comprenda» (Mt 19, 12). I discepoli stentavano a capirlo, ma alcune idee andavano raddrizzate riguardo sia al matrimonio sia al celibato. Gesù riafferma il progetto di Dio circa l’unione coniugale. Disapprova le incoerenze, in particolare quelle 
dovute al mancato rispetto della dignità della donna. Per il resto il matrimonio non necessitava di speciali raccomandazioni o incoraggiamenti. Infatti, che fosse gradito al Dio d’Israele era noto da sempre. Anzi dal popolo eletto era considerato anche doveroso. Mentre la condizione di celibato permanente era oggetto di commiserazione.

Gesù dimostra di non apprezzare il celibato inteso come fuga da impegni più seri, ma ne sostiene la rispettabilità se scelto «per il regno dei cieli». In una volta sola Gesù libera sia l’uno che l’altro da ingiusti preconcetti. Il celibato può essere gradito a Dio, al pari del matrimonio, il quale perciò non deve più significare costrizione morale o condizionamento sociale. 

In questo contesto si pone 1Cor 7. Di fronte alla comunità Paolo fa l’elogio della vita celibataria. Tale elogio, andando controcorrente, doveva essere ben sottolineato, per restituire libertà a tutti. Per nessuno, neppure per chi assumeva un ruolo ministeriale, il matrimonio doveva essere un destino obbligato. E tanto meno vietato.

«Lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, sedotti dall’ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza. Costoro vieteranno il matrimonio...» (1Tim 4, 1-3). La tradizione paolina né obbliga, né proibisce. Quindi, riaffermato il principio, nulla di strano che il suo carisma personale si traduca in un incoraggiamento a seguire una via egualmente gradita a Dio, anche se meno apprezzata dagli uomini.

La scelta di Paolo è diversa da quella degli altri apostoli. Ma nello stabilire presbiteri ed episcopi, se sposati, era attento a che sapessero «dirigere la propria famiglia» (1Tim 3, 4). Capacità che deponeva a favore della loro idoneità ad assumere qualche responsabilità nella chiesa.

Anche in Paolo, nel confronto tra celibato e matrimonio, di costrizioni e divieti neppure l’ombra. Fa eccezione la condanna di chi vuole proibire. La libertà è il valore che ne esce più rafforzato e difeso.

La libertà che si è splendidamente affermata nel monachesimo, nelle diverse forme, e negli ordini religiosi, maschili e femminili, per tanti secoli fino a oggi. La linfa benefica, che è donata alla chiesa, proviene da radici che si stendono nel terreno della generosa spontaneità. Anche le regole sono prodotte e accettate da una libera scelta, liberamente rinnovabile. Le leggi canoniche si sovrappongono dopo, più o meno opportunamente.

La vita religiosa non doveva arrecare alcun pregiudizio all’estimazione del matrimonio, previsto da Dio per l’umanità fin «da principio». Tanto che il linguaggio mutuato dalla vita coniugale e familiare è sempre stato abituale presso i mistici, e di casa tra le mura dei conventi. Oltre che raffigurante il rapporto tra il Signore e la sua chiesa.

Un ostacolo per la vita comunitaria. 

Come si allora è giunti a stabilire che il matrimonio è proibito per «i chierici costituiti negli ordini sacri»? Si è dimenticato che il celibato è libero e i ministeri sono necessari. Che, più che attendere chi si offre, spetta alla comunità «chiamare» ai ministeri. Ovviamente non chiunque.

Secondo il Levitico (21, 16ss) non «potrà accostarsi a offrire il pane del suo Dio» nessun uomo deforme o cieco o nano, né chi abbia una macchia nell’occhio o la scabbia o piaghe purulenti o sia eunuco. Forse si parte di lì, aggiornando debitamente gli «impedimenti» per il sacerdozio ministeriale. Agli altri motivi di scarsa decenza si è associato, invece che l’essere eunuco, l’essere sposato. Un bel progresso!

L’itinerario è stato lungo. Ricostruire il percorso non è facile. Forse ha appena sfiorato il Nuovo Testamento. Si può sospettare che una tappa sia stata quella ricordata da Filone d’Alessandria nell’Apologia dei Giudei, 14: «Prevedendo con chiarezza quale ostacolo sarebbe stato il matrimonio sia di per sè sia per la vita comunitaria, gli Esseni lo hanno messo al bando, imponendosi di praticare una continenza perfetta. Nessuno di loro si sposa, perché ritengono la donna egoista, gelosa, un laccio per la vita dell’uomo con le sue seduzioni» (cit. in Paolo Sacchi, Storia del mondo giudaico, S.E.I., 1976, pagg. 247s).

È vero che gli Esseni costituivano una setta, una specie di cenobiti, ma le loro idee sulla donna sono uscite dai loro rifugi e si sono disseminate lungo i secoli. E c’è chi, abbandonando i pascoli sani del Signore, è andato altrove a brucare erbe tossiche.

Fioravante Moscariello
 


 
[ Indice] [ Sommario] [ Archivio] [ Pagina principale ]