STORICITÀ «EVANGELICA»
I miracoli secondo Matteo

Ho letto il dibattito sul tema della storicità dei miracoli (e non solo) di Gesù, che si è svolto tra i redattori del foglio. È un argomento molto complesso. Cerco di dire qualcosa sulla base del Vangelo secondo Matteo, che ho avuto occasione di analizzare recentemente, proprio dal punto di vista dei miracoli. Si ha l’impressione che Matteo vi presti un’attenzione particolare e sviluppi un’argomentazione piuttosto articolata. C’è un passo, in particolare, in cui Gesù fa un chiaro riferimento ai miracoli da lui compiuti come prova della sua messianicità (11,2-6): Giovanni in carcere gli manda a chiedere se è proprio lui quello che deve venire o si deve aspettare un altro e Gesù invita a riconoscere che effettivamente i ciechi tornano a vedere, i lebbrosi vengono purificati, i morti risorgono, ecc. Implicitamente rinvia alle profezie di Isaia che predicevano quel tipo di miracoli per i tempi messianici. È chiaro che i miracoli devono essere stati reali, altrimenti che prova si avrebbe? Da questo punto di vista si potrebbe dire che la “storicità” dei miracoli fa parte del messaggio evangelico.

La concretezza di quei miracoli non è oggetto di discussione nel Vangelo: anche gli avversari alla fine riconosceranno «Ha salvato altri» (27, 42). Semmai è in discussione quale tipo di miracoli siano propri del messia: agli scribi e ai farisei quei miracoli non bastano e chiedono segni inequivocabili “dal cielo” (12, 38; 16, 1). Il diavolo nelle tentazioni pretendeva miracoli di esibizione di potenza: trasformare le pietre in pani, gettarsi giù dal pinnacolo del tempio esigendo il soccorso degli angeli (4-6). Gesù rifiuta questo tipo di miracoli: compie miracoli perché prova compassione per le sofferenze e i bisogni degli uomini; non vuole mettersi in mostra, anzi chiede spesso il silenzio. Nella risposta a Giovanni sopra menzionata egli suppone che il suo modo di agire non possa essere compreso e accettato da tutti e afferma: «beato chi non si scandalizza di me» (11, 6). Secondo Matteo, il modello di Gesù, anche per i miracoli, è il Servo di Iahvè: egli cita infatti (in 8, 17), a commento di alcuni racconti di miracolo, la frase «Egli ha preso su di sé le nostre infermità, si è caricato delle nostre malattie» (Is 53, 4).

Nel racconto evangelico è presupposto che anche altri possano compiere miracoli, veri o falsi. In 7, 22-23 Gesù dice: «Molti mi diranno in quel giorno: “Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?”. Io però dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità”»; in 24, 24: «Sorgeranno falsi messia e falsi profeti e faranno grandi segni e prodigi, tanto da ingannare, se possibile, anche gli eletti». Il miracolo, da solo, rimane ambiguo. Alla fine Gesù, pur sfidato («Se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!»: 27, 40), rinuncia al miracolo di scendere dalla croce ed evitare così la morte. Potrebbe farlo, come fa capire al momento dell’arresto, quando, condannando il gesto di un discepolo che ha colpito con la spada il servo del sommo sacerdote, dichiara: «Pensi che io non possa pregare il Padre mio, ed egli mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli?» (26, 53); del resto anche il diavolo sa che egli potrebbe disporre, in situazione di pericolo, del soccorso immediato degli angeli (4, 5). La rinuncia all’autodifesa e al ricorso alla potenza dei miracoli a proprio favore da parte di Gesù viene interpretata dalle autorità giudaiche ostili come impotenza a «salvare sé stesso», come negazione della figliolanza divina (27, 42). Però proprio nel momento della morte avviene un terremoto e si verificano risurrezioni, a indicare il potere vivificante della sua morte; e si ha il riconoscimento da parte del centurione e delle guardie (da estranei, nemici) che davvero egli era il Figlio di Dio (27, 51-54).

Secondo il mio punto di vista, non è essenziale distinguere stratificazioni nel testo, operazione comunque sempre difficilissima e rischiosissima: è importante cogliere il messaggio del testo nella sua forma attuale. Del resto, è presumibile che se non si fosse trattato di miracoli ritenuti reali, almeno nella sostanza, non ci sarebbe stato interesse a trasmetterli fin dall’inizio.

Però c’è anche un’altra considerazione da fare: nel testo attuale di Matteo è presupposta la veridicità fondamentale dei racconti, ma conta il significato che è contenuto in essi. Gli evangelisti non pretendono un’aderenza ai fatti in tutti i particolari e si permettono variazioni rispetto alle fonti: lo si vede bene già confrontando le versioni di Matteo e di Luca quando dipendono da Marco: e questo anche nei racconti di miracoli, anche nei racconti della risurrezione. Il medesimo autore può riportare in modi diversi lo stesso fatto: si vedano, negli Atti degli apostoli, le tre diverse versioni della “conversione” di Paolo. D’altra parte, non sono neppure preoccupati di raccontare tutto ciò che è avvenuto, ma, come ben mostra Giovanni (20, 30-31), raccontano solo quei fatti, tra cui i miracoli (i “segni”), che servono per suscitare la fede in Gesù come Cristo e Figlio di Dio.

Un’ultima osservazione a proposito di Giovanni: egli indica il miracolo, oltre che col termine semeion, anche col termine ergon, che indica l’azione compiuta, l’opera. In un caso mostra che l’operare potente di Gesù è in continuità con l’operare del Padre, che non è mai cessato, neppure di sabato; dopo la guarigione del paralitico di sabato, Gesù dichiara: «Il Padre mio opera (ergàzetai) fino ad ora e anch’io opero (ergàzomai)» (5, 17). L’intervento potente, qual è il miracolo, rientra nel libero e sovrano operare divino che è cominciato con la creazione e non ha limiti se non nella volontà di Dio stesso: «Come il Padre risuscita i morti e dà la vita – dice ancora poco dopo Gesù –, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole» (5, 21). Ma Giovanni meriterebbe ben altra analisi.

Clementina Mazzucco


 
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