SENZA I CONFORTI DELLA STORIA
I vangeli sono racconti

Innanzitutto ritengo si debba mantenere ben distinto il problema teologico sulla possibilità che Dio intervenga fisicamente nella storia da quello esegetico sul valore storico e/o simbolico dei racconti evangelici. Lascio da parte il primo, che richiede altro genere di considerazioni, e comincio dal secondo, osservando che, senza una vera comprensione del valore espressivo, comunicativo e veritativo del racconto, il nostro sforzo di capire la Bibbia è destinato a restare sterile.

La Bibbia è, infatti, un grande codice letterario e anche quando ci presenta testi legislativi e sapienziali lo fa all’interno del racconto. Nel suo insieme essa è una storia, ma una storia singolare costruita con miti, leggende, affabulazioni fantastiche, episodi novellistici, cronache di eventi, più o meno rielaborati, inni, componimenti poetici e profetici, il tutto guidato e motivato sempre e solo come confessione di fede, come testimonianza tesa a mettere in luce la grandezza di Dio, la fedeltà del suo amore d’elezione, la potenza della sua volontà salvifica. Aspetti, questi ultimi, che per essere espressi, trasmessi e resi intellegibili, esigono che nulla venga risparmiato delle capacità metaforiche, fantastiche, rammemorative, testimoniali, pedagogiche, dialettiche e veritative del linguaggio, e che per essere accolti e capiti chiedono si abbandoni l’idea della verità come rispondenza diretta tra parola e fatto, pena la caduta nel vicolo cieco degli opposti estremismi positivista e fondamentalista: tutto falso o tutto vero.

Il che vale anche per i vangeli che nella loro interezza sono una rilettura teologico-narrativa della figura di Gesù, della sua predicazione e dei suoi atti, della sua passione, morte e resurrezione alla luce della teologia e del linguaggio dell’Antico Testamento. Alla loro base sta infatti da una parte l’incontro con la persona e la vicenda straordinaria del Nazareno, dall’altra il patrimonio religioso e simbolico del pensiero biblico e giudaico, attraverso cui tutto ciò che riguarda Gesù viene colto e capito così da diventare esperienza trasmissibile e testimoniabile, cioè racconto. I fatti e i detti di Gesù li conosciamo solo attraverso quattro racconti, ciascuno dei quali ha una prospettiva teologica e interpretativa, una tecnica narrativa e un contesto sociale, culturale e polemico proprio.

Se prendiamo, ad esempio, i vangeli dell’infanzia di Matteo e di Luca, vediamo che nel tentativo di valorizzare aspetti poco noti della vita di Gesù (modalità di concepimento, luogo di nascita, vicende relative ad essa) producono dei veri e propri midrash. Per dire che Gesù è venuto a compiere le Scritture Matteo e Luca “inventano”, sulla base di modelli narrativi anticotestamentari ben differenziati, quello relativo a Mosè e quello utilizzato per l’Emmanuele davidico, due distinti percorsi di nascita tra loro storicamente e biograficamente inconciliabili. Nessuno dei due è oggettivamente confermabile, tutte e due sono teologicamente significativi e densi di verità.

Matteo e Luca erano dei falsari e degli acchiappacitrulli o erano dei narratori-teologi che dicevano come meglio sapevano, sulla base della loro cultura e della loro fede, abbeverata alle Scritture, la loro accettazione delle testimonianze ricevute a proposito della messianicità di Gesù?

Gesù era un imbonitore?

È subito evidente quanto sia improprio porre la questione della verità o falsità delle testimonianze evangeliche, riducendo tutto a cronaca puntuale di fatti o a conclamata intenzione di inganno. L’oggettività degli eventi nessuno la conosce e nessuno può raggiungerla attraverso la loro semplice narrazione. Noi abbiamo soltanto il racconto e la possibilità di cercare di capire perché, come e con quali strumenti linguistici e intenzioni testimoniali ci è stato trasmesso; tanto più che i vangeli non sono opera dei testimoni originari, ma di loro discepoli e che la forma in cui ci sono giunti ha subito, fino almeno a tutto il II secolo, interventi redazionali di integrazione e spiegazione.

Ma veniamo a Giovanni, il vangelo cui appartiene il racconto della “resurrezione” di Lazzaro. Giovanni è il più ideologico dei quattro vangeli, vale a dire quello in cui il peso della prospettiva teologica nella ricostruzione della vita di Gesù è più evidente e sviluppato. Certo ciò non significa, a priori, che sia il vangelo meno fedele alla storia, ma che è il più audace a forzare la storia nel senso voluto dalla sua chiave interpretativa: Gesù come Verbo eterno incarnato che tiene strettamente sotto controllo ogni momento della sua vita e orienta, fin dall’inizio, ogni sua parola e ogni suo gesto al «Tutto è compiuto» della croce.

Nessuno dei sinottici fa parlare Gesù come lo fa parlare Giovanni. Ma soprattutto nessuno lo fa così signore del proprio destino, fin nei dettagli, da agire e parlare come agisce e parla qui all’annuncio che l’amico, tanto amato ma ignoto ai sinottici, sta per morire.

Se deve essere storico qualche particolare di questo singolare racconto, la priorità tocca indubbiamente alle parole messe in bocca a Gesù per giustificare la sua decisione di ritardare la visita all’amico malato. È bene, allora, tenendo sott’occhio il testo per coglierlo com’è e non come ci sembra che sia, porci alcune domande. Gesù ha voluto davvero lasciare che Lazzaro morisse? Si è davvero “rallegrato” di non averlo impedito, per dimostrare ai suoi la sua strapotenza di guaritore e fare la sceneggiata del pianto davanti alla tomba dell’amico? Ha davvero agito, come un tipico imbonitore, dicendo ad alta voce per la folla cose che, rivolgendosi a bassa voce al Padre, si è subito preoccupato di ridimensionare? O non dobbiamo piuttosto pensare che Gesù è in Giovanni il tipico eroe “più vero del vero” messo in scena da un narratore onnisciente, che pretende di conoscere e riferire anche gli aspetti e i pensieri più segreti dei suoi personaggi, proprio perché non si pone nella prospettiva storica del testimone oculare, ma in quella letteraria del rivelatore ispirato che della realtà narrata ha colto l’essenza segreta e si preoccupa di palesarla per mezzo di simboli esemplari.

Certo, Giovanni non vuole presentarci una favola. Vuole illustrarci la potenza salvifica del Verbo incarnato, esplicitare la fede nel Risorto e in certo senso anticiparne gli esiti e gli inizi ai giorni che precedono la sua morte. A tale fine egli riprende la situazione che già aveva presentato nell’episodio del figlio malato del funzionario (4, 46-54), sviluppandola in modo opposto. Là Gesù guarisce il moribondo, al cui capezzale è stato chiamato, da lontano, impedendone la morte. Qua attende che l’amico muoia e ritarda fino a che «manda cattivo odore»; ma il messaggio è lo stesso, e non consiste nella constatazione che il ragazzo è guarito «un’ora dopo mezzogiorno» (4, 52) e che Lazzaro sta già decomponendosi, ma nell’annuncio che Gesù è «la resurrezione e la vita» (11, 25).

È del resto lo stesso racconto su Maria, Marta e Lazzaro a suggerirci, fin dall’inizio, che è stato scritto, per così dire, a tavolino, coi sinottici sotto mano. Basta leggerlo. Maria e Marta sono due figure riprese del vangelo di Luca (10, 38-42), che nomina un certo Lazzaro solo nella parabola del ricco epulone. Maria poi è presentata da Giovanni come colei che cosparge di unguento i piedi del Signore e glieli asciuga coi capelli. Giovanni ne parlerà solo all’inizio della passione (12, 1-8), mescolando i particolari di un racconto analogo di Luca, dove la protagonista è una prostituta (7, 36-40), con uno di Marco (14, 3-9). È suo costume adattare alla propria risistemazione teologica i testi dei vangeli precedenti, senza alcuna ricerca della consistenza storica degli eventi.

Miracoli e propaganda.

Concludendo. Gesù ha compiuto miracoli? Non lo escludo a priori, lo ritengo possibilile, anzi lo spero. I miracoli raccontatici dai vangeli sono tutti storicamente provati e provabili? No. Alcuni lo sono di più, altri di meno, in base alla concordia delle testimonianze evangeliche e alla dinamica, più o meno attendibile e lineare, della loro narrazione. Nel caso specifico poi della cosiddetta “resurrezione” di Lazzaro, mi pare che l’esame di questi due elementi faccia pendere la bilancia verso la scarsa probabilità storica dell’evento, a favore di una sua “invenzione” teologica. La ricostruzione esegetico-critica sulla formazione del racconto, ripresa da Mauro Pedrazzoli su il foglio 292, mi pare fondata, mentre non condivido la sua idea che sarebbe meglio parlare di risveglio dal coma invece che di resurrezione da morte. La soluzione è forse gradita a chi cerca di concordare scienza e fede, ma per l’esegeta, impegnato a capire il senso del testo, è un ripiego inutile e una complicazione in più.

Gli evangelisti sono allora dei propagandisti? Sì. Propagandano e cercano di diffondere la loro fede, di rafforzare con ogni mezzo, coerente con la loro visione culturale e spirituale della realtà, la propria testimonianza. Sono dei falsari? No, perché falsario è uno che cerca di sostituire a quanto riconosce vero il falso, non chi cerca di rafforzare con buoni argomenti, validi strumenti retorici e simbolici, quella che lui ritiene la verità, anzi l’essenza stessa della verità.

Come osserva la storica dell’età greco-romana Marie-Françoise Baslez: «I giudei del mondo greco, in conformità con gli usi dei santuari e delle città in cui vivevano, si erano abituati a dare una certa pubblicità a tutti i momenti della loro vita religiosa. Documenti regi e lettere da Gerusalemme, fonti autentiche o appositamente create, rispondevano a questo scopo. Nella stessa logica i racconti miracolosi avevano al contempo una funzione liturgica e pubblicitaria, come nei santuari greci. Redatti secondo gli stessi schemi – prova, preghiera, miracolo, lode collettiva e conversione dei presenti –, essi ci rivelano come funzionava la propaganda religiosa, scritta e orale, mediante liturgie commemorative e rituali di ringraziamento» (Bibbia e storia, Paideia, Brescia 2002, p. 331).

Vogliamo pensare che i giudei cristiani, che raccontano in greco le gesta esemplari di Gesù, non fossero uomini come gli altri? Vogliamo evitare all’incarnazione della Parola questa storica umiliazione? Vogliamo dei segni verificabili per credere che Gesù è il Cristo? Vogliamo la certezza che chi ha creduto e testimoniato ha visto, toccato con mano, fiutato col naso, che il miracolo è avvenuto proprio come racconta? «Non ci sarà dato alcun segno» (Mc 8, 12). Tanto che Giovanni stesso scrive: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno» (20, 29) e lo scrive proprio per permetterci di credere senza il bisogno di avere per certo che Tommaso ha messo il dito nel costato del Risorto e che Lazzaro è stato fatto uscire dal sepolcro quando già puzzava.

Ma allora la fede può vivere senza il conforto della conferma storica e scientifica? Certo, e già Paolo lo riconosce quando la presenta come «follia», che non è irrazionalità, ma sguardo lanciato sulla realtà propria e del mondo alla luce della speranza, oltre ogni ragionevole speranza, che ci sia salvezza dal male e dalla morte, che Dio possa e voglia liberarci dalla schiavitù presente.

Aldo Bodrato


 
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