DAL NOSTRO “INVIATO” NEL MESSICO
Il 2° paese più corrotto del mondo
Il Messico è un paese di oltre centodieci milioni di abitanti, dei quali, si calcola, quasi quaranta vivono sotto la soglia di povertà. Ma questa parte della popolazione, così calcolata in base a un reddito minimo in dollari, si riduce di un terzo se si prende la soglia utilizzata dalla Fao, e di oltre la metà se si utilizza il metodo messicano del salario minimo mensile, che consente di acquistare i beni di sopravvivenza per una famiglia di quattro messicani, che – si sa – consumano molto meno di uno statunitense.

Quando però si percorrono le vie di una qualunque delle principali città del Messico (e qui tutte le città sono più grandi di Torino) si può constatare che il paese ha superato la fase dello sviluppo, e che conta con un settore industriale da grande potenza economica (è per esempio l’ottavo costruttore automobilistico mondiale) e con un mercato moderno e dinamico. Da tre anni l’inflazione è stabilmente al di sotto del sei per cento, e il peso – la moneta locale – si è rivalutata del dieci per cento rispetto al dollaro, consentendo alla banca centrale messicana di rimborsare a basso costo i prestiti del Fondo Monetario Internazionale, che aveva ricevuti dopo la drammatica crisi del 1995.

Il Messico si presenta, per certi versi, come l’esempio di un paese che, applicando i consigli del Fmi, ha saputo dare stabilità alla propria economia.

Certo le privatizzazioni sono state fatte “alla messicana”: mettendo nelle mani di poche potentissime famiglie locali alcuni monopoli strategici come i telefoni, il gas, le ferrovie. Peraltro i monopoli delle aziende di stato sono un cancro di corruzione di dimensioni immonde: la sola PeMex (la compagnia di stato che estrae e distribuisce tutto il petrolio del paese) distribuisce in bustarelle a politici e sindacalisti tanti soldi quanti basterebbero per costruire una raffineria all’anno. E invece il petrolio estratto parte negli Stati Uniti per essere raffinato, e da lì ritorna sotto forma di benzina, così scadente (per forza, la migliore se la tengono gli Usa!) che la percentuale di zolfo è di 300 parti per milione (roba che da noi nemmeno si usava negli anni Sessanta!). 

Nessuno meglio dell’attuale presidente messicano Vicente Fox avrebbe potuto da un lato convincere i paesi ricchi all’aumento progressivo dei loro contributi allo sviluppo e dall’altro testimoniare che la stabilità politico-economica e la lotta alla corruzione sono condizioni accettabili e benefiche per i paesi in via di sviluppo.

Perché proprio Vicente Fox e il Messico dovrebbero accreditarsi questa duplice credibilità?

Lotta alla corruzione.

Insediato alla Presidenza della Repubblica federale messicana nel dicembre del 2000, questo ex Vice-President della Coca Cola per l’America Latina (ma niente a che vedere con Berlusconi, a confronto del quale il messicano giganteggia non solo in statura fisica, ma soprattutto morale e politica) ha finora coerentemente concentrato le sue energia sui due temi che gli hanno fatto vincere le elezioni nel luglio scorso: la lotta alla corruzione e alla povertà.

Una barzelletta che ti raccontano i messicani dice che il Messico è il secondo paese più corrotto del mondo, solo perché ha pagato qualcuno per non figurare al primo posto della lista. La corruzione è un cancro diffuso a qualunque livello della società e a qualunque livello di potere (non è affatto vero che più si è miserabili più si è onesti, o per lo meno non qui). Per esempio, quando ho ospiti europei, vado a parcheggiare a fianco della cattedrale, in pieno Zocalo, dove un ragazzino scalzo mi scosta la catena in ferro su cui è appeso il segnale di divieto di parcheggio (non sempre c’è posto, qualche volta è pieno anche lì). L’operazione mi costa quindici pesos – una cifra esorbitante in confronto alle mance che di solito si pagano a chi ti sorveglia la macchina – ma il ragazzino mi ha spiegato gentilmente che solo cinque pesos restano a lui, gli altri dieci li consegna come tangente al poliziotto che, all’angolo, sorveglia il traffico con il fucile a pompa spianato.

Le somme impiegate ogni anno nella corruzione non sono affatto distribuite in modo democratico: esse crescono in modo esponenziale con il crescere del potere e della posizione sociale. A Tijuana è stato recentemente arrestato il “Grande Vecchio” del cartello che organizza i sequestri di persona (ti sequestrano per poche ore o per settimane intere, dipende da quanto hai sul conto corrente o da quanto hanno stimato il tuo patrimonio): era il prefetto incaricato della lotta anticrimine, e con lui sono finiti in galera duecento poliziotti della sua squadra. Chi crede che dietro a tutto questo ci sia la Cia o le multinazionali si sbaglia di grosso: i principali beneficiari e organizzatori sono messicani (o, se vogliamo essere storicamente precisi, discendenti dei criolli che fecero la prima rivoluzione con Hidalgo – un prete! –, come in tutti i paesi dove le rivoluzioni destinate a durare sono quelle della borghesia emergente), che poi prontamente investono il loro denaro in solide fiduciarie a NewYork o a Zurigo.

Dunque la lotta alla corruzione ha un obiettivo economico chiaro: recuperare una massa monetaria importante per orientarla poi sui consumi (la mordida che pagano i normali cittadini, potrebbe essere spesa in acquisti e quindi alimentare il mercato interno) o sugli investimenti (le tangenti delle aziende – di stato o private – potrebbero trasformarsi in investimenti produtttivi, per non dire poi del potenziale di piccole imprese che potrebbero finalmente lanciarsi nell’attività senza il freno di burocrati corrotti). Per combatterla non bastano le azioni giudiziarie, ma – come ha ben capito l’attuale governo – è necessario avere leggi e regolamenti semplici e chiari, al posto degli attuali complicatissimi, che sembrano terribili sulla carta, ma che di fatto si rivelano inapplicabili e incontrollabili. Nuove leggi – come per esempio la riforma fiscale – richiedono però anche un quadro istituzionale democratico forte e stabile, per poter essere riconosciute come espressione di consenso popolare. Il Messico ci sta arrivando, paradossalmente proprio grazie al cambio elettorale che – dopo settantanni – ha fatto perdere il potere al Partito Revolucionario Institucional.

Quale altro paese (almeno tra quelli dell’America Latina) poteva mandare al blocco occidentale dei paesi ricchi il messaggio che la prima condizione posta al finanziamento allo sviluppo – «Più democrazia e meno corruzione» – può essere rispettata, e non deve quindi costituire una scusa per chiudere il rubinetto dei finanziamenti? Certo non l’Argentina di Dualde, o il Venezuela di Chavez (che ha tentato un colpo di stato ed è stato rimesso in sella dai suoi ex-colleghi militari) o la Colombia di Pastrana (in balia di una raccapricciante carneficina tra bande di destra e di sinistra per il controllo del traffico di droga). E dunque il Messico si è candidato a ricevere l’aumento degli aiuti allo sviluppo che è riuscito a strappare a George Bush nel corso del vertice dell’Onu sul finanziamento allo sviluppo, svoltosi in marzo a Monterrey, poiché è naturale che il primo beneficiario debba essere – visto che si comporta da persona civile – il vicino del piano di sotto.

Lucha a la pobreza.

La seconda condizione posta dai paesi ricchi per finanziare lo sviluppo dei paesi poveri è che, appunto, gli aiuti arrivino direttamente ai poveri, senza fermarsi prima nelle tasche dei ricchi dei paesi poveri. Anche su questo il Messico di Vicente Fox può vantare il diritto a prendere la parola.

Infatti il secondo pilastro della politica del governo foxista è la lucha a la pobreza, la lotta alla povertà. Considerata la drammatica carenza di risorse statali (la finanza pubblica non riesce a raccogliere che un terzo delle imposte dirette dovute, e recentemente il parlamento – ancora a maggioranza Pri – ha bocciato una estensione dell’Iva in sostituzione di tasse e gabelle di difficile esazione), un piano di investimenti pubblici in grandi opere, capaci di generare occupazione, è assolutamente impensabile. Il governo continua dunque una populistica distribuzione di sussidi, che non risolvono nulla, ma nemmeno generano malcontento. Più importante è invece l’azione politica. Nel succitato quaranta percento (o trenta o venti, secondo come lo si calcola) della popolazione al di sotto della soglia di povertà, c’è il cento per cento della popolazione indigena, che conta qualcosa come trenta milioni di persone – aproximadamente, come dice qualunque messicano quando ti dà una cifra. L’idea del presidente è di dare a questa popolazione più diritti e più visibilità politica, nella speranza che sia un primo impulso a uno sviluppo dal basso. Provo a fare un esempio. In Messico quasi il cinquanta per cento della popolazione ha meno di venticinque anni, e gli indios non fanno eccezione. La recente (e criticata) Ley Indigena attribuisce agli indios il diritto di avere, nelle scuole, corsi nella loro lingua e spazi per tramandare le loro tradizioni. Se questa misura riuscisse ad attirare più bambini indios nelle scuole, il tasso di analfabetismo si ridurrebbe, e inversamente crescerebbe la possibilità che gli indios alfabetizzati promuovano con più efficacia i loro affari (i governatori di alcuni stati messicani si interessano molto al caso del nord-est italiano, dove l’artigianato e la piccola impresa – e il lavoro nero – hanno fatto decollare l’economia, senza investimenti in grandi fabbriche).

Il governo di Vicente Fox non ha soldi ed è quindi ovvio che cerchi di attirare in Messico una parte dei fondi Usa destinati allo sviluppo; se il vicino nordamericano aumenta il fondo, la fetta a cui può ambire il Messico è più grande.

D’altra parte anche agli Usa conviene che siano i messicani i primi beneficiari dei loro aiuti. Infatti con il consolidarsi della zona Euro si stanno rendendo conto della necessità di ampliare il proprio mercato interno, e l’integrazione del Messico nella zona di libero scambio nordamericana (Nafta) costituisce un formidabile potenziale di rilancio dell’economia. A patto ovviamente che all’interno del paese vicino si riducano le disuguaglianze sociali, fonte di instabilità politica ed economica.

Stefano Casadio


 
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