TARTAGLIA, TEOLOGO SCOMUNICATO
Il profeta della «novità pura»
All’Adelphi il merito di aver rievocato la figura di Ferdinando Tartaglia, grazie alla nuova pubblicazione, a più di cinquant’anni di distanza, di un suo breve e densissimo scritto: Tesi per la fine del problema di Dio; seguite da un saggio di Sergio Quinzio, che di Tartaglia subì la profonda influenza e che su di lui ci ha lasciato queste e altre pagine preziose.

Questo sacerdote – presto scomunicato – comparso all’improvviso nella Firenze del secondo dopoguerra, fu uno dei protagonisti di una stagione culturale appassionata e ingenua, affamata di politica e desiderosa di confronto intellettuale, rapidamente esauritasi nella sua vitalità tanto impetuosa quanto minata da diffusa fragilità. In quell’epoca e tra quelle generazioni in vario modo protese verso il nuovo, la voce di Tartaglia cercò di farsi udire annunciando la più estrema e radicale delle «novità»: quella del «puro dopo», della tramutazione totale; la profezia dell’assoluta fine e dell’assoluto cominciamento. Incantevoli brandelli di questa stagione rivivono nelle pagine di Giulio Cattaneo – autore di un libro, L’uomo della novità, scritto nel ’67 e a sua volta riedito da Adelphi –, costruite attorno a Tartaglia e alla sua parola: inseguita, amata, oggetto di turbinose contestazioni, ammaliatrice spesso incompresa e forse incomprensibile.

Nel leggere queste Tesi l’eco di quella parola si avverte ancora con forza. Anche nel Tartaglia scritto – come doveva accadere per il Tartaglia orale – il linguaggio sembra costituire un ideale punto di avvio verso quella Realtà Nuova ripetutamente evocata. Un linguaggio che si costruisce in un crescendo di «accumulazioni«, nella vorticosa ripresa di periodi precedenti, arricchiti da minime e progressive integrazioni. Lingua al tempo stesso «geometrica» e profetica, nella quale si mescolano e si confondono astrattezza speculativa e aneliti di redenzione assoluta, Spinoza e il Regno.

Quel che, a una lettura pur approssimativa, in Tartaglia si avverte immediatamente è un’ansia di liberarsi da qualsiasi lascito filosofico e teologico tradizionale. Ogni descrizione di Dio tentata in passato suona per lui soltanto quale elusione o sofisticazione: «Dio è stato sempre Dio solo in modo attributivo-formale, dunque irreale». Teismi e ateismi vari, trascendenza e immanenza, dualismo e monismo non hanno rappresentato che continui fraintendimenti dell’autentica essenza divina. La profezia di Tartaglia ha inteso essere lo scioglimento di tale ripetuto fraintendere, misurato dallo sforzo di collocarsi in un assoluto «dopo» tramutante ogni realtà attuale.

Ma, preso atto di questa sorta di «azzeramento», cosa resta di quella tradizione cristiana da cui Tartaglia proviene? Non poco a sentire Quinzio: «L’annuncio escatologico di Gesù Cristo rimane, anche se dichiaratamente rifiutato, il fulcro di ogni suo movimento». In effetti, le sue pagine non fanno che ruotare attorno all’annuncio di una liberazione; trasfigurata nell’impazienza dialettica che lo caratterizza molto è rimasto della «speranza» paolina. Il Dio «nuovo» di Tartaglia vive ancora in affinità profonda con il Signore cristiano che consola lo strazio del mondo. Del resto, il suo «Dio puramente salvante e serviente» egli stesso lo vede balenare nel cristianesimo, anche se rinnegato poi dalla sua storia.

E se una non cristicità si intendesse cercare in lui, non credo la si potrebbe trovare nel fastidio per l’ufficialità ecclesiastica o per le tradizionali formulazioni dogmatiche, quanto più facilmente nel disconoscimento di quel bisogno di memoria che è stato alimento essenziale tanto del cristianesimo che dei suoi padri ebrei. In fondo, con moto spirituale affine allo sguardo carico di nostalgia che l’Angelo di Benjamin rivolge al «cumulo delle rovine» del passato, i nuovi cieli e le nuove terre evangeliche assomigliano più alla luce messianica che rischiara tutti gli orrori e gli abissi di dolore alle nostre spalle, che all’annullamento enfatico del vecchio cielo e della vecchia terra; una luce che non cancella il tempo che è stato come un resto inutile ma, appunto, lo salva per sempre dalla caducità dello svanire.

La storia di Tartaglia è, infine, anche la storia di un oblio – verosimilmente non meno inseguito che subito. Deluso, come forse non pochi cristiani degli inizi, dal mancato avvento di una liberazione creduta prossima, ha voluto convertire la sua esuberante parola in un silenzio testimone d’impotenza? Sì, se si deve credere a Quinzio: «Tartaglia – ha scritto - ha preso sul serio il Regno e il fatto immensamente assurdo e doloroso che non è venuto» – forse eccedendo nel riversare su di lui le sue più intime ossessioni, forse giungendo a comprenderlo meglio di chiunque altro. Ma potrebbe anche esser vero, come vuole ancora Quinzio, che solo alle profezie che clamorosamente falliscono è data possibilità di compiersi.

Massimiliano Fortuna

• Ferdinando Tartaglia, Tesi per la fine del problema di Dio, con un saggio di Sergio Quinzio, Adelphi, Milano 2002, pp. 160, € 8,00.

• Giulio Cattaneo, L’uomo della novità, Adelphi, Milano 2002, pp. 119, € 7,50.


 
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