«GLI ULTIMI», IL FILM SCRITTO DA TUROLDO
La vita è bene, anche quando non è bella

Anche a Torino, dopo Udine, è stato possibile vedere la versione restaurata del film Gli ultimi, del 1963, ideato e sceneggiato da padre David Maria Turoldo. La sera del 31 maggio, nel cinema Massimo, sala del famoso Museo torinese del Cinema, un grande pubblico ha riempito la sala, costringendo a restare fuori molti altri aspiranti spettatori. Una nuova programmazione è prevista per ottobre. Entro l’anno uscirà la cassetta e l’anno prossimo il dvd. Il film narra la vita dei contadini del Friuli negli anni ’30 con immagini aspre, di pietra viva, linguaggio forte e asciutto, scarno, con poco parlato, molti silenzi eloquenti, i canti friulani, i rumori della campagna, la musica di Schubert, a sottolineare con la compostezza classica nel dramma – come ha rilevato Rodolfo Venditti nella presentazione – la nobiltà di quella povertà. Infatti, protagonista del film 
è la povertà onesta e dignitosa, la stessa in cui ricordavano di essere nati e cresciuti, ciascuno nella sua terra marginale, uomini come papa Giovanni ed Ernesto Balducci, non per nulla profondamente compresi da Turoldo.

Nel filone del neorealismo più puro, in bianco-nero, entro un paesaggio sempre invernale – stagione non della morte, ma dell’eternità, perché è stagione dei semi, come diceva stupendoci il poeta Andrea Zanzotto – magro come i volti di quei poveri, il film arrivava tardi e presto, nel ’63. Tardi, quando il neorealismo si andava esaurendo in macchiettismo; presto, perché sfidava il boom economico, rivendicando i valori umani presenti in quella povertà, che l’Italia voleva scuotersi di dosso. Nobiltà, e non vergogna della povertà, canta il film in immagini di poesia. Fuori tempo, perché oltre quel tempo, il film non ebbe alcun successo, se non nella critica più eletta: Ungaretti, Pasolini. Neppure le sale parrocchiali lo programmarono perché, nell’Italia della guerra fredda, onorare gli “ultimi”, i poveri, i proletari, voleva dire fare il gioco dei comunisti. Tanto più che il regista, Vito Pandolfi, compagno di Turoldo nella Resistenza, era socialista.

Oggi, nel decennale della morte dell’autore, l’opera restaurata nei laboratori di Studio-Cine, a Roma, ci fa scoprire un altro profilo artistico e umano del poeta e dell’uomo Turoldo, anche perché il film è schiettamente autobiografico. Il fanciullo Checo, più sensibile e intelligente dei coetanei, è lo stesso David Maria, il quale, infatti, rimase sempre un grande fanciullo: ingenuo, semplice, sognatore incantato come un bambino, ma fortificato da quella vita dura e difficile, e per sempre impegnato alla lotta, alla parola franca, alla solidarietà con gli ultimi. Tutti gli attori sono gente del luogo, di quel popolo di ultimi, che solo l’occhio evangelico riconosce primi. Padre di Checo era Lino Turoldo, fratello di David, sicché la somiglianza impressionate, nel volto, nei gesti, nel modo di camminare, anche perché la voce è doppiata da David stesso, ci fa vedere e sentire con emozione lo stesso frate poeta in quel personaggio, che è il passato e il futuro del bambino Checo. Il quale era il bravissimo Adelfo, un bambino di Nomadelfia, altro capitolo intenso e drammatico della vita di padre Turoldo. I sentimenti intensi e trattenuti, ma comunicati e compresi con poche parole, sono una caratteristica dell’anima friulana, dice Ermis Segatti, anch’egli di famiglia friulana.

Alcune battute – come quella della madre, delicato scrigno di umanità, ai figli che chiedono se c’è altro da mangiare: «Eh, non si può crescere tutto in una volta», e quella del padre che distribuisce due pezzi della solita sola polenta, dicendo: «Questa è polenta, e questo è formaggio» – le abbiamo sentite raccontare da Turoldo stesso, a ricordo del coraggio quasi allegro con cui la povertà veniva sopportata.

La religione di quella società contadina non è esibita (per esempio, non pregano prima dei pasti, come ci aspetteremmo; il prete compare appena, in un ruolo abbastanza privilegiato), ma è tutta interiore e sorregge l’esistenza, come vediamo nei riti seri e robusti delle morti tragiche, nel rosario in latino guidato dall’anziano del villaggio.

Se Benigni ha detto che la vita è bella anche nella persecuzione, Turoldo dice qui che la vita è bene anche quando non è bella, perché allora rivela una sua più nascosta bellezza, che il poeta, e chi ha imparato la sapienza del soffrire, sono i soli a poter vedere.

E.P.


 
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