DIBATTITO SUI MIRACOLI, NON SUI VANGELI
Una teologia in forma narrativa

Reagendo al testo di Peyretti, vorrei osservare che mi sembra importante aver compiuto la “rivoluzione copernicana” nel modo di accostarci ai testi evangelici: ossia il passaggio, come Tragan suggerisce, dalla domanda «che cosa è successo?» alla domanda: «che cosa ha inteso dire con questo racconto l’autore, l’evangelista?». Si prende per buona una volta per tutte la tesi fondamentale: gli evangeli sono appunto “buoni annunci”, testimonianze della fede postpasquale nel Risorto, rese mediante il “racconto” della sua Passione e, prima, della sua vita, del suo agire ricompresi, innanzitutto, dai testimoni stessi, e quindi presentati agli ascoltatori/lettori alla luce dell’evento pasquale. Non sono, in primo luogo e nella intenzione degli autori, testimonianze dirette della vita, parole, azioni di Gesù, bensì testimonianze della fede nella resurrezione di Gesù, quindi del suo essere Messia e Signore. Non sono testimonianze di fatti, bensì di significati spirituali.

Non per questo sono romanzi. A Pasqua è sicuramente successo qualcosa di straordinario nell’intimo di ognuno dei discepoli e nella comunità. Ci deve essere stata una fortissima percezione che l’inaspettato, l’inaudito, l’assolutamente sorprendente e nuovo era accaduto, che il Signore Gesù viveva veramente in una nuova dimensione, che pure tocca la nostra.

Questo, non senza drammi e difficoltà, in una nettissima differenza rispetto all’idea di una rivivificazione: Tommaso che non crede; Gesù che “si fa vedere” in aspetti diversi (dunque non è semplicemente visibile, ma si rende percebile nonostante la differenza di aspetto in situazioni e persone diverse) dal suo (l’ortolano, lo sconosciuto che arrostisce il pesce, il “terzo” di Emmaus), il suo apparire non a tutti ma solo a quelli che lo avevano conosciuto (tutt’altro che una classica “apparizione” dunque, come ce ne saranno lungo i secoli, di Maria, ma anche di Gesù). Quest’ultima cosa è molto indicativa: “appare” ai “suoi”, nel senso che ora i “suoi” (e non potrebbero essere coloro che mai lo hanno visto) lo “vedono” nella sua vera luce, comprendono il significato profondo del suo agire, e comprendono che è egli stesso che agisce in loro e apre loro gli occhi della fede. Si sperimentano nuove creature, dei “resuscitati”, comprendono che il Signore, dunque, è un vivente oltre la morte e che, quindi, è da sempre uno che ha potere di dare vita a coloro che sono nelle tenebre della morte, come loro stessi erano fino a Pasqua.

Racconto, non romanzo.

Gli evangelisti, secondo la tradizione d’allora, scrivono la loro teologia in forma narrativa, sotto forma di racconto. Inventato? No! Storico nei dettagli? No! Fortissimo è l’interesse degli evangelisti a sottolineare che stanno parlando di un concreto essere umano, vissuto davvero, che il crocifisso è il resuscitato. Fortissima è la preoccupazione di segnalare che non si tratta di un romanzo, di una figura ideale inventata. Di questa persona concreta riferiscono i fatti principali della vita, il modo (realissimo e che gli è costato la vita) di mettersi in relazione con gli uomini e le donne, con i ricchi e con i poveri, con i poteri religiosi e con la istituzione religiosa, con la tradizione biblica, con il potere politico e le brucianti questioni politico-religiose del tempo.

Vogliono dire che fu il più grande dei profeti, che ebbe ogni potere da Dio, che è signore della vita, vincitore della morte, origine di un nuovo mondo. Lo dicono anche con i racconti dei miracoli e prodigi, sul calco dei miracoli dei grandi profeti (per esempio Elia ed Eliseo). Perché lo fanno? Perché non c’era altro mezzo: ossia, questo era il mezzo spontaneo e tradizionale per dire, mediante simbolo e metafora, dei contenuti spirituali in modo concreto, proprio per evitare che fossero presi solo per delle belle parole, per dire che si trattava di cose vere e serie. Fa parte della mentalità e della lingua ebraica e semitica, che non conosce l’astrazione, che è concreta. Fa parte anche del bagaglio culturale degli estensori dei testi e dei loro destinatari: non erano teologi sistematici e filosofi! Gesù certamente fece uscire «sette demoni» da Maria di Magdala e da molti altri, «sollevò» donne «curvate» dal peso della oppressione religiosa/culturale (che divennero sue discepole), e di questo agire inedito è testimonianza l’incredibile racconto della adultera, totalmente rivoluzionario; «sanò» donne «malate da dodici anni e fanciulle dodicenni»: l’intera vita di donne; cambiò tristi conviti in conviti gioiosi (Cana); aprì «gli occhi» di ciechi nati (tutti coloro che lo seguivano), fece camminare (nella sua sequela) zoppi e paralitici, udire (la sua parola) «sordi», annunciò ai poveri la buona novella, guarì da interne «febbri» che impedivano di servirlo (suocera di Pietro), rimise i peccati (il più grande «miracolo», come i vangeli stessi sottolineano); insomma fece potenti segni che dopo la Pasqua si chiariscono come segni (come dice il vangelo di Giovanni) della sua capacità di far “rivivere” l’umanità morta e ogni singolo.

Risuscitò (condannandoli a morire due volte) dei “veri” morti? Sì, certamente, nel senso simbolico e metaforico. E che dire del senso letterale? Che Lazzaro fosse «di quattro giorni» è per dire che era un vero morto, che era passato per lui anche il termine biblico del “terzo” giorno in cui si aspetta la resurrezione. Ma questo è per dire che tutti noi siamo morti davvero, che solo Dio ci può salvare e che in Gesù veramente lo ha fatto. Non è neppure un “come se”: è dire in altro modo, metaforico, una cosa realissima. Che Gesù abbia operato dei prodigi, non dubiterei. Non si tratta di rifiutare l’idea stessa della possibilità del miracolo. Si tratta, invece, di comprendere il senso delle narrazioni dei miracoli, che è più grande, e non più ristretto, quando si riconosca che quel racconto non è un semplice resoconto, ma una testimonianza e un kérygma che intende rivelare Gesù. Ciò può portare a scoprire che alcune narrazioni hanno un contenuto di verità fortissimo e realissimo, anche se il fatto che riferiscono è poco plausibile. Ad esempio, se davvero Gesù avesse rivivificato dei morti, nessuno avrebbe rifiutato di seguirlo, ebrei e gentili. Ma il suo messaggio e missione sarebbero stati completamente travisati. Come se fosse venuto a prolungare questa vita e non a iniziare una nuova creazione. Del resto i vangeli sono chiarissimi nel riportare la ripulsa di Gesù verso il sensazionalismo miracolistico. Le “tentazioni” cui resiste all’inizio della missione sono tentazioni di compiere miracoli; il che dà potere e ricchezza, dà pane quando nel deserto si muore di fame (in questo senso, dà vita ai morti), ma è cosa diabolica.

Miracoli e fede

La disputa comunque si riferisce solo alla storicità dei miracoli, non dei vangeli e della narrazione dei fatti della vita e predicazione di Gesù. Non bisogna perder di vista questo.

I “miracoli” sono segni che svelano tutto il loro significato solo a chi ha fede; provocano anche la fede? Sì e no. Il grandissimo miracolo che provoca la fede è l’esperienza che il crocifisso, che non è sceso dalla croce, in questo stesso morire è alzato in alto, risuscitato da Dio e principio di vita nuova per tutti nella effusione del suo spirito. I miracoli nel senso ordinario, accaduti durante la vita di Gesù, anche quando vengono narrati come motivo di fede, lo sono sempre in modo problematico (nella narrazione, voglio dire). Lo stesso “segno” viene visto da molti, alcuni credono e altri no. Sono segni, infatti, indizi, non prove processuali irrefutabili. Altrimenti non si crede, si constata semplicemente. E tra coloro che “credono” viene messa in evidenza dai vangeli la cattiva, parzialmente travisante qualità della “fede” 
di alcuni: che, per l’appunto, vorrebbero altri miracoli. 

Gesù ha sicuramente dato segni di potenza benefica: per esempio liberato dai “demoni” e, io credo, sanato malati (tanto bravi pranoterapeuti ci riescono, perché proprio lui no?!), ma subito si è dovuto mettere a combattere contro l’aspettativa che questo fosse “tutto”, che fosse “la cosa stessa” e non un “segno”: un segno su alcuni di qualcosa che riguardava realissimamente tutti. I miracoli di Gesù sono strani: vengono narrati in cornici che dissuadono dall’enfatizzarli, con ammonimenti di Gesù a non raccontarli, o con Gesù che scappa perché non gliene chiedano. Un racconto che dice questo non sta amplificando né inventando: dice qualcosa narrando. Finché non siamo persuasi che il significato metaforico e simbolico è più reale e importante di quello cosiddetto “realistico” ci impantaniamo. Dunque, i discepoli non hanno inserito “parti” inventate in un racconto per il resto realistico: hanno preso le situazioni reali prepasquali e le hanno investite della luce della Pasqua, che fa apparire quanto c’era ma era nascosto (come mettere contro luce un pezzo di alabastro) e lo fanno con una teologia narrativa. Che gli evangelisti abbiano potuto esprimersi attraverso narrazioni anche di miracoli, dipende certo dal fatto che “segni” ci furono. Ma il racconto è un’altra cosa. È una costruzione letteraria, che, ad esempio, serve anche a mettere Gesù nella sequenza dei grandi profeti («ha fatto quel che han fatto loro e molto di più»).

Il racconto evangelico è, del resto, evidentemente non realistico-cronachistico in tanti passaggi. Chi c’era a udire le parole di Gesù nell’Orto degli olivi, che i vangeli riferiscono, posto che i tre discepoli che aveva preso con sé dormivano? Ne deduciamo che è inventato? No. Con un racconto, l’evangelista esprime quanto i discepoli avevano colto di realissimo. Chi c’era a fare da cronista alla creazione del mondo? È un’invenzione puramente fantastica, allora? No, esprime un significato teo-antropologico mediante il racconto, la citazione dei miti coevi, reinterprentadoli, cambiandoli di segno. Lo riconosciamo senza turbamento: perché per i miracoli dev’essere diverso?

Gli evangelisti non dicono affatto che loro hanno creduto perché Gesù aveva fatto quei miracoli; sottolineano, al contrario, che Gesù aveva “suonato” molte volte alla loro porta con vari segni e avevano creduto poco e male, anzi in senso stretto non si era risvegliata la loro fede, che nasce nuova di zecca, inedito nella storia del mondo, a Pasqua. Ed evidenziano che solo dopo la Pasqua capiscono la portata dei detti e fatti di Gesù: e scoprono che è, da capo a fondo, una portata di risuscitamento e risanamento dell’essere umano. Anche quando Gesù sanava un malato o chiamava un peccatore lo stava “risuscitando”; scoprono anche che la sua potenza non è limitata dalla morte. Ma tutto questo è sempre sotto un velo, perché l’invito è a credere in Gesù e non ad avere prove irrefutabili da registrare.

Si tratta, quindi, di ascoltare, di volere capire quel che loro hanno voluto dirci attraverso i generi letterari che hanno usato, uno e non il più importante dei quali è la costruzione teologicamente raffinatissima e pregnante di scene di miracoli.

Maria Cristina Bartolomei


 
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