Ammalarsi |
La malattia è come la morte, universale e ineluttabile, eppure si presenta come sorpresa ed eccezionalità; ha l’apparenza di un incidente di percorso o di qualcosa di “laterale” e non di centrale. La reazione è disfarsene immediatamente. In realtà può far sentire parte della razza umana, che non soltanto nella filosofia ma nella vita quotidiana sperimenta il limite.
La malattia mette in balia di tutti, sia di coloro che cercano di curarti che di coloro che da quel momento in poi indagheranno su di te, domandandoti non genericamente «come va», ma «oggi come va» e ti raccomanderanno di aver cura di te. Che è proprio la cosa a cui tieni e che ti riesce di meno in quei momenti. Quando la malattia comporta l’intervento chirurgico, si ha la certezza che pur con tutti i progressi di quella scienza, l’approccio al proprio corpo non potrà che essere traumatico, a cominciare dalla perdita dell’integrità, dalla manipolazione del proprio corpo nudo da mani con cui non c’è una condivisione di vita, diciamo un progetto comune, che includa amicizia, fino alla successiva ri-appropriazione del corpo modificato. La prima comunità incontrata da missionario, i Gabra del Kenya, cantava alla Comunione: «Gesù, vieni nella mia pancia». Non conoscevano la nostra attribuzione dei sentimenti al cuore. In fondo erano più con la Bibbia che parla di «viscere» per indicare amore e compassione. Uno operato al ventre sente che quelle parole vanno bene così. Nel malato si può insinuare la sindrome americana «dove il prossimo colpo?». La vince pensando alle percentuali matematiche, che non dovrebbero presentare, a breve, un altro conto. Ma se ha fede, la persuasione che fa scrivere a Paolo: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze» (1Cor 10,13), gli tiene buona compagnia. Piero Gallo |