Editoriale

Mentre commemora l’11 settembre senza averlo mai capito, Bush, il petroliere presidente degli Usa eletto acrobaticamente, forzando l’opposizione mondiale e l’appoggio minimo anche dei suoi concittadini, prepara una nuova guerra contro il popolo irakeno e la persona di Saddam per odio personale e a scopo finanziario.

Intanto, i bombardamenti “di routine” sull’Iraq continuano, negli stessi giorni, come da undici anni.

Senza prove imparziali, Saddam è sospettato di fabbricare armi di distruzione di massa (quelle stesse armi che le potenze nucleari possiedono e conservano abbondanti) e di sostenere il terrorismo. Non si uccide per un sospetto, come avveniva durante il Terrore con la “legge dei sospetti”.

Il sospettato Saddam dovrebbe invitare ispettori imparziali di tutti i paesi dell’Onu a fare i controlli. Però ha ragione, come riconobbe anche il Papa, a volere dalla stessa Onu la revoca delle condizioni iugulatorie che da undici anni strangolano non lui, ma i più poveri irakeni, specialmente i bambini. Gli Usa vogliono mantenere quelle condizioni.

Che Saddam non sia presidente eletto, neppure alla maniera di Bush, non è motivo sufficiente per far guerra al popolo che ne sopporta il potere. Ma il maggior danno che Bush sta infliggendo a quel tanto di civiltà che ci ritroviamo, è la 
re-introduzione del concetto di “guerra preventiva”, una bomba di distruzione di massa contro la sicurezza generale. Nessuna morale e nessuna legge può permettere un tale crimine internazionale.

Se Bush lo compie sarà giudicato. Gli rimane da sperare che lo giudichi non un vendicatore, ma un giudice regolare, come la Corte Penale Internazionale, anche se gli Usa ancora la rifiutano.

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Nel discorso dell’11 settembre, Giovanni Paolo II ha, tra altre considerazioni sulla negatività di ogni violenza, tanto del terrorismo quanto della guerra, ha ricordato l’urgenza e la necessità di «uno sforzo concorde e risoluto per avviare nuove iniziative politiche ed economiche capaci di risolvere le scandalose situazioni di ingiustizia e di oppressione, che continuano ad affliggere tanti membri della famiglia umana, creando condizioni favorevoli all’esplosione incontrollabile del rancore. Quando i diritti fondamentali sono violati è facile cadere preda delle tentazioni dell’odio e della violenza. Bisogna costruire insieme una cultura globale della solidarietà, che ridia ai giovani la speranza nel futuro».

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Il prossimo 11 ottobre saranno 40 anni dall’apertura solenne e festosa del Concilio. Papa Giovanni era consapevole di avviare un grande aggiornamento. Il suo discorso ufficiale di quel giorno è un grande documento. Anche il bigliettaio del 64, dichiaratosi comunista, non poté fare a meno di esprimere la sua simpatia per il Papa. Chi di noi seguiva gli avvenimenti ecclesiali, quel giorno partecipava da vicino con attenzione, ma nessuno poteva ancora avvertire ciò che sarebbe stato lo sviluppo successivo e completo del Concilio, nel valore e nei limiti. La prima cosa importante che si poteva cogliere era che la parola veniva data ai vescovi, e perciò, indirettamente, alle chiese locali e ai teologi consulenti dei vescovi, anche a molti teologi che erano stati in precedenza messi a tacere. A Roma si crearono continue occasioni di ascoltare, in riunioni serali, pubbliche e meno pubbliche, i maggiori teologi del mondo. Si constatava coi propri occhi che la chiesa non era solo romana ed europea. Negli anni di Pio XII molta enfasi veniva data, e non senza ragioni, al martirio della “chiesa del silenzio”, cioè quella dei paesi a regime comunista. Aperto il Concilio, sapemmo, negli ambienti della Fuci, a cui arrivavano confidenze di Montini, che un vescovo africano gli disse: «Lei che può parlare al Papa più facilmente di me, gli dica che la chiesa del silenzio eravamo noi vescovi».

Enrico Peyretti

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