Fini e le leggi razziali

Ci risiamo. Un altro che pensa di cavarsela con una richiesta di perdono. Gianfranco Fini, intervistato dal quotidiano israeliano «Ha’aretz», afferma: «In effetti, in quanto italiano devo accettare la responsabilità. Lo devo fare a nome degli italiani, i quali portano la responsabilità per ciò che accadde dopo il 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali. Hanno una responsabilità storica ... e quindi sono tenuti a pronunciare dichiarazioni, a chiedere perdono. Sto parlando di una responsabilità nazionale, non personale».

Con questa sortita Fini si è guadagnato la prima pagina ed è riuscito a dire due sciocchezze, due tragiche sciocchezze.

Attribuendo un dovere agli italiani nei confronti degli ebrei, Fini implicitamente nega l’italianità degli ebrei italiani. Questo fu proprio l’aspetto più offensivo che colpì, prima della persecuzione fisica, tanti ebrei che non solo si sentivano italiani, ma erano coscienti del grande contributo ebraico alla formazione dello stato italiano, dal Risorgimento in poi.

La seconda sciocchezza sta nel parlare di responsabilità collettiva, di popolo. Proprio sull’idea della responsabilità collettiva del “popolo deicida” si è scatenata la millenaria persecuzione antiebraica di origine cristiana. Un pregiudizio tragico, forse non completamente scomparso neppure oggi, a trentasette anni dalla dichiarazione Nostra Aetate, con cui il Concilio, dopo lungo, sofferto e contrastato dibattito, riconobbe che Charlie Chaplin non ebbe responsabilità nella morte di Gesù.

Non esistono responsabilità collettive, esistono responsabilità di individui e di gruppi accomunati dai loro obiettivi politici, non certo dalla lingua che parlano. Quindi, se Fini vuole chiedere perdono a nome di qualcuno, lo faccia a nome dei suoi amici fascisti, con i quali e al servizio dei quali ha percorso almeno vent’anni della sua carriera politica. Lo faccia a nome di Giorgio Almirante, segretario di redazione della «Difesa della Razza», la rivista diretta da Telesio Interlandi che accompagnò la nascita e l’applicazione delle leggi razziali del 1938. Lo stesso Almirante figura tra le personalità che aderirono immediatamente ai provvedimenti antiebraici del regime, in buona compagnia di Luigi Gedda e padre Gemelli.

Fini fu ammiratore e discepolo fedele di Almirante, che lo ricambiò citandolo ufficiosamente come proprio “delfino” nel 1987. Perché Fini non propose la richiesta di perdono a lui e agli altri gerarchi del MSI quando questi erano vivi e ben coscienti delle loro responsabilità (personali, non collettive) di collaboratori dei massacri nazisti?

Ad ogni persona di elementare coscienza morale bastano pochi attimi di riflessione per respingere l’odiosità delle leggi razziali. Per Fini ci sono voluti 34 anni, visto che si dichiara nato politicamente nel 1968. Con quale dignità può egli parlare oggi a nome degli italiani? Come può pretendere credibilità per la sua richiesta di perdono, senza che questa sia riconosciuta per quello che è: un ulteriore atto di ipocrisia di chi credeva di salvarsi la faccia con un pellegrinaggio ad Auschwitz, giornalisti e fotografi al seguito.

Gianfranco Accatino


 
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