«MAGDALENE» VINCITORE A VENEZIA
God isn’t good

In Irlanda i conventi Magdalene, gestiti dalle suore della Misericordia, ospitano ragazze dalle famiglie o dagli orfanotrofi. Imprigionate, le giovani donne sono costrette a lavorare nelle lavanderie per espiare i propri peccati – in inglese magdalene significa appunto prostituta redenta. Sembra quasi un contrappasso dantesco: la donna (non l’uomo!) che si è “macchiata” di quel grave peccato che è il sesso fuori del matrimonio (peggio è solo l’omicidio) è ora costretta, anche con la forza se è il caso, a passare la vita a lavare e stirare i panni degli altri.

Il film Magdalene, del regista scozzese Peter Mullan, racconta l’esperienza di alcune ragazze che nel 1964 si trovano a vivere in uno di questi luoghi terribili e senza via di uscita: una ragazza violentata dal cugino, un’altra, orfana, troppo vanitosa con i ragazzi, una ragazza il cui figlio – mai neppure degnato di uno sguardo da parte dei genitori di lei – viene sottratto in ospedale da un prete per essere dato in adozione, e infine una ragazza leggermente ritardata il cui figlio viene preso dalla sorella, che periodicamente glielo porta a vedere da dietro il cancello, senza che le suore se ne accorgano. Questi conventi scompariranno solo nel 1996, dopo che l’arrivo negli anni Settanta della lavatrice aveva comunque reso obsoleto il loro servizio. Viva la lavatrice.

Il film, dalla regia solida ma tradizionale, è stato premiato a Venezia con il Leone d’oro, e subito ha suscitato la risentita reazione dell’«Osservatore Romano» e di altri ambienti cattolici sull’opportunità di tale scelta. Ma insomma, viene da chiedersi: sono esistiti o no questi conventi? (È strano che non se ne sia mai sentito parlare, almeno in un’ampia cerchia.) Il film suscita nello spettatore attraverso un crescendo di situazioni drammatiche - la prima scena, quella del matrimonio e dello stupro che si svolge durante la festa che ne segue è assolutamente superba, con la musica celtica al limite dell’orgia che copre tutto il sonoro - un senso di rifiuto totale per quel mondo, ma forse anche per l’esperienza religiosa in sé. Sulla testata dei letti ci sono infatti scritte del tipo: «God is good» o «God is just». Non è difficile vedere in queste affermazioni una forte ironia.

La colpa in corpo.

In effetti, la tesi è calcata senza molte sfumature problematiche, i personaggi sono tutti assolutamente cattivissimi. Posto che la ricostruzione di quell’ambiente sia nel complesso verosimile, il film eccede per amor di tesi in alcune scene, come la fellatio tra la ragazza più debole, sprovveduta, nonché leggermente ritardata e il prete, nel giochetto che due suore un po’ lubriche fanno davanti alle ragazze nude su chi ha le tette più grandi ecc., nell’ostentazione delle disparità di trattamento durante il pranzo. Non conosciamo l’Irlanda, ma tutti e tre i casi sono improponibili nel mondo religioso dell’Europa sud-continentale, in particolare che due suore (e non una da sola) facciano tali cose. Scene quindi del tutto inutili, forzate e francamente da evitare.

In tali conventi-carcere, nella marea di atti sadici e umiliazioni ripetute, imperversa l’antichissima e ultra-mitologica concezione della colpa, nel capro espiatorio che mostra l’autodifesa della comunità ferita dalla violenza sessuale. Non è infatti lo stupratore a subire la pena, bensì la vittima, del tutto incolpevole e innocente. La ferita non deriva dalla colpa dello stupratore, ma proprio dal “fatto” dello stupro; occorre dunque eliminarlo, in senso letterale, negando e cacciando fuori dai confini del gruppo il corpo su cui il crimine è stato compiuto. Ci sono pure le due ragazze madri ma anche quella bella e orfana (che non ha fatto nulla), la quale è però esposta col proprio corpo al desiderio maschile. In loro, proprio nei loro corpi, la colpa vive oggettivamente e materialmente; che si sia o no già manifestata, in ogni caso le condanna a essere eliminate. Quei corpi a cui non è più attribuito alcun valore d’umanità, intrisi solo di peccato che nessun (pseudo)amore materno o paterno è disposto a perdonare.

Fa specie in questa storia anche l’atteggiamento della famiglia irlandese (tutte?), pronta a “disfarsi” della giovane figlia compromessa dal punto di vista sessuale (anche contro la propria volontà, o anche senza “consumare”). Solo un fratello – segno che bastava il consenso di un familiare – torna a “riprendersi” la sorella (che lo rimprovera: «E non potevi crescere prima?»). La scena più violenta è non a caso proprio quella di un 
padre che riporta a forza in convento la figlia scappata senza risparmiarle botte, cinghiate e calci (tanto che la suora lo ferma: «Può bastare»). Come ha potuto una cultura eminentemente cattolica come quella irlandese esprimere una simile abiezione? Come si è potuta permettere una tale coercizione (sia pure a fine, supposto, di bene)? È vero che anche in Italia il problema delle “ragazze madri” è solo da un paio di decenni completamente neutralizzato, ma non risulta sia mai esistito qualcosa di analogo, pur rimanendo a lungo il marchio sociale connesso a chi procreava fuori del matrimonio.

La scena più intensa rimane a nostro parere il finale: inginocchiata davanti alla superiora (che ha di lato il vescovo), la splendida Margaret, esempio di tenerezza e vera carità cristiana che ha sempre esercitato aiutando le sue compagne in difficoltà, recita il «Padre nostro»: dopo quattro anni di tortura e oppressione, sono queste le parole che la giovane donna pronuncia in piena, consapevole autonomia di fronte alla sua persecutrice. Quest’ultima, forte della sua presunzione d’autorità, si nutre di prevaricazione, e in questo si autogiustifica nel nome di Dio; l’altra, priva di qualunque potere, si rivolge e si abbandona all’amore paterno di quello stesso Dio per vedersi riconosciuta come essere umano.

m.p.a.r.


 
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