SCRITTURA E PAROLA: SAPIENTI/1
Nel giardino dell'amore

SŠìr hasŠsŠirîm, Cantico dei cantici, è il titolo ebraico di questo piccolo libro d’amore, che intorno al 100 d. C. Rabbì Aqiba ottenne fosse inserito nel canone, sostenendo che, se «tutte le Scritture sono sante, esso è il santo dei santi» e come tale «sporca le mani», contamina cioè chi, senza adeguata preparazione, lo tocca, lo legge e si permette di commentarlo. SŠìr hasŠsŠirîm, un superlativo assoluto che in italiano suona: Cantico dei Cantici, e che e altre lingue europee rendono con Le plus beau chant, The sublime song, Dah Hohe Lied, El mejor cantar, e K. Barth definisce la Magna Charta dell’umanità.

È forse per questo che di un testo tanto ammirato e affascinante non è possibile dare una lettura univoca, ma si devono proporre interpretazioni diverse, tendenzialmente infinite, che non stanno tra loro in contrapposizione, ma si integrano e s’inglobano a mo’ di bambole russe. L’una rimanda e si apre all’altra o nell’altra s’inserisce e solo prese insieme formano l’unità del gioco.

Così è dell’esegesi allegorico-spirituale rabbinica, patristica e monastica, che vedono nel Cantico l’illustrazione della relazione d’amore tra Dio e Israele, Dio e la Chiesa, Cristo e l’anima del mistico. Così delle analisi storico-culturali, che pongono il Cantico in continuità coi testi d’amore religiosi e profani del vicino Oriente e trovano in esso le tracce delle sacre liturgie nuziali tra la dea della fecondità e il re-sacerdote o dei canti rituali di fidanzamento e di matrimonio. Così della lettura di chi oggi, sulla base di un approccio più immediato e letterariamente fedele, coglie nel Cantico gli accenti di una celebrazione, lirica e drammatica insieme, della passione, le note di un canto d’amore che sa unire eros ed agape, piacere e donazione.

Autore, epoca e genere letterario.

Nella Bibbia ebraica il Cantico dei cantici si trova nella serie delle Cinque Megillot. Cioè tra i cinque rotoli: Ruth, Cantico, Qohelet, Lamentazioni ed Ester; mentre la Bibbia cristiana lo pone tra il Libri sapienziali. La tradizione ha attribuito il Cantico a Salomone. Il che dal punto di vista simbolico è anche indovinato, visto che I Re ci dice che Salomone, maestro di sapienza, ha scritto 1005 canti e ha esercitato l’arte dell’amore in un harem di ben 700 mogli e 300 concubine. Ma la critica storica e letteraria ritiene che nessuno dei libri biblici attribuiti al figlio prediletto di Davide sia di suo pugno. Non Qohelet (scritto, secondo gli antichi, in vecchiaia); non Proverbi (frutto della maturità) e neppure il Cantico (opera di giovanile entusiamo). Si tratta, infatti, di opere che vedono la luce dopo l’esilio babilonese e per il Cantico non si può che pensare al II sec. a.C.

Chi sia l’autore di questo scritto resta un mistero. Non è neppure certo che di un autore si debba parlare e non di un’autrice. Più di un indizio suggerisce che il Cantico sia frutto di sensibilità femminile e certo una donna è protagonista e attrice principale del suo essenziale nodo drammatico. Il che vale anche a proposito degli spunti teologici che se ne possono trarre. Essi vanno tutti in una direzione che non sarebbe sbagliato leggere come risposta femminile alle interpretazioni maschiliste del rapporto uomo-donna presenti in molti testi biblici.

In ogni caso è bene partire dalla considerazione che, uomo o donna che sia, chi scrive il Cantico non agisce sotto la spinta di una travolgente storia d’amore, non dà sfogo alla sua passione, non ci offre il racconto e il diario di un’esperienza diretta e immediata. Per trovare poesia d’amore antica, in cui la personalità dell’autore sia fortemente coinvolta o addirittura esplicitamente esibita in tutte le sue pieghe più riposte, bisogna ricorrere ai Greci: Saffo, Alceo, Mimnermo. Basta un rapido confronto tra una qualsiasi delle loro liriche, per lo più centrata su un’immagine resa metafora di una singola situazione sentimentale, e l’andamento fluente, ripetitivo, cumulativo e quasi solenne del Cantico, per capire che qui non di una soggettiva espressione d’amore si tratta, ma dell’esaltazione oggettiva dell’amore come esperienza che fonda la vita e fronteggia la morte.

Gli esperti esegeti ci parlano della particolarità del linguaggio del Cantico. Ci dicono che usa numerosi vocaboli rari e inconsueti, che ama riprendere termini di lingue straniere. Noi, che leggiamo il Cantico in traduzione, non possiamo che accogliere le loro indicazioni. Possiamo però verificare di persona la ricchezza della terminologia sensoriale, la molteplicità dei riferimenti botanici, il profluvio di profumi e di spezie, i riferimenti a luoghi esotici, la messa in campo di re e faraoni, la sapienza e la complessità dell’incastro narrativo e delle sue riprese tematiche in continuo crescendo. Chi scrive non stende un’appassionata missiva per l’amato, non raccoglie in unità versi dedicati all’amata. Compone un inno; produce un’opera colta, destinata ad essere letta e meditata da colti, magari anche in prospettiva teologica, benchè il nome di Dio sia in esso ben celato.

Certo ha ragione Bonhoeffer quando scrive che gli piacerebbe leggere il Cantico «come un canto d’amore terreno e che questa è forse la sua migliore interpretazione anche in ordine ad una sua rilettura cristologica». Ha ragione Gollwitzer quando afferma che col Cantico la Bibbia ci dice: «Guardate, ascoltate questi due innamorati come gioiscono ciascuno del corpo dell’altro, come si contemplano nudi e anelano alle carezza e all’amplesso, come nel loro incontro tutti i sensi abbiano la loro parte, come il loro amore sia l’amore voluto da Dio. Un amore sessuale, pieno, felice, gratificante. Non un penoso residuo fisico dell’essere, ma la sua via alla pienezza del corpo e dello spirito, al dono di sé, a quell’apertura all’altro, che è via per aprirsi a Dio». Ha ragione Gerleman a sostenere che «l’amore degli amanti del Cantico prescinde dalla religione, non segue nessuna delle leggi sociali che regolano la sessualità, non esige il matrimonio, esalta i giochi della sensualità erotica, segue lo slancio di ricerca dell’altro, tipico della passione, sta quindi sotto il patrocinio dell’amore libero». Hanno ragione, a patto che sia chiaro che tutto ciò è frutto di quella sapienzialità poetica e teologica che sa dare alle sue opere l’aspetto della spontaneità e della naturalezza.

Ricerca, fuga, incontro e rivelazione.

Per meglio capirci cerchiamo di individuare alcuni dei fili tematici e dei motivi retorici del Cantico. Anche l’amore ha bisogno di una sua retorica per esprimersi in modo convincente ed emotivamente efficace. La principale di queste figure tematiche e retoriche è quella del giardino. Su questa concentreremo l’attenzione, non senza però aver accennato prima ad altre due, che con essa s’intrecciano e interferiscono: quelle della ricerca e della fuga e quella dell’incontro rivelatore grazie all’ingresso nella stanza o nel giardino dell’amata o dell’amato. Il Cantico non canta, infatti, un amore statico e contemplativo, ma un amore dinamico e pieno di tensione.

Sono motivi che ritroviamo fin dai primi versetti. «Mi baci coi baci della sua bocca!» è un’invocazione, seguita dall’affermazione in positivo della dolcezza e della soavità dell’amato, che subito si trasforma in movimento: «Attirami dietro di te, corriamo. M’introduca il re nelle sue stanze, gioiremo...» (1,2-4). L’amata è la baciata, ma è anche colei che è bruna, perché conduce vita all’aperto e ha rotto le regole, non custodendo «la sua vigna». È colei che insegue l’amore al pascolo, ma non vorrebbe vagare inutilmente (1,5-8). Proprio come l’amato che è «un re nel suo recinto» con l’amata (1,12) e la «introduce nella cella del vino» per «porre la sinistra sotto il suo capo e abbracciarla con la destra» (2,4-6), ma è anche «un capriolo o un cerbiatto ... che viene saltando per i monti», «spia attraverso l’inferriata», invita l’amata ad «alzarsi e venire» e al tempo stesso la supplica di «non nascondersi» e di «svelargli il suo viso e la sua voce» (2,8-14). È, infine, ancora l’amata ad invocare l’amato perché «torni sopra i monti degli aromi» (2,17), salvo chiudere il poema col grido «fuggi mio diletto», «fuggi sopra i monti degli aromi» (8,14).

Ricerca e fuga scandiscono i momenti dinamici del Cantico. L’amata non trova l’amato accanto a sé e lo cerca per le vie della città (3,1-3); lo insegue nella notte dopo averlo fatto attendere troppo alla sua porta (5,1 e ss.). Tra l’incontro e l’assenza sta l’«introdurre», volentieri non portato a compimento, e, quando compiuto, accompagnato dall’invito a «non destare dal sonno l’amore» 
(3, 4-5; 8,2-4). Tanto che De Benedetti può parlare del Cantico come della celebrazione dell’unione ritardata, del desiderio che pienamente si manifesta, ma mai è pienamente appagato.

Il giardino, simbolo dell’Eden.

In tutto questo andare e venire di corpi, di parole, di desideri e di sentimenti, il giardino sta come l’ambito chiuso e protetto dell’incontro, come il momento dell’unione, della pace gioiosa e della reciproca rivelazione e contemplazione. Il giardino, come spazio fisico e luogo simbolico.

Nel giardino cintato del re si sviluppa il magnifico duetto del «sacchetto di mirra, che riposa tra i seni» e degli «occhi come colombe» (1,12-17). Un invito al giardino di primavera (e giardino sono la vigna fiorita e il campo verdeggiante) è rivolto dall’amato all’amata (2,10-17) e dall’amata all’amato (7,12-14). Ancora giardino è il luogo dell’appagamento (4,16; 5,1; 6,11-12). Giardino infine è l’immagine evocata negli ultimi versi, aggiunti da un imitatore al Cantico (8,13).

Ma soprattutto giardini chiusi, pronti ad aprirsi per manifestare la propria deliziosa ricchezza, sono i corpi dell’amata e dell’amato, microcosmi che racchiudono tutte le bellezze e le dolcezze del creato: erbe, fiori, alberi, frutti, animali, rocce e pietre preziose (4,2-12; 5,10-16; 6,2-7; 7,2-9). Giardini che nel giardino si offrono allo sguardo contemplante dell’altro e a lui si rivelano e rivelano la felicità e la pienezza lungamente cercata. Giardini che del giardino esaltano la natura edenica di inizio e fine dell’intero creato.

Il giardino, come giardino dell’Eden, è infatti nella letteratura e nella teologia biblica, il luogo della creazione dell’uomo e della donna, della loro convivenza pacifica con ogni altro essere e del loro quotidiano dialogo con Dio (Gn 2). Ma è anche simbolo della felicità perduta: «il Signore Dio lo scacciò (Adamo) dal giardino di Eden» (Gn 3,23), e di quella promessa: «Saranno un giardino irrigato» (Ger 31,12); «Renderò il deserto come l’Eden, la steppa come il giardino del Signore» (Is 51,3).

Già Osea, con la sua vicenda coniugale, presa a modello del rapporto Dio-Israele, utilizza l’immagine dell’amore per collegare la ritrovata unità tra sposo e sposa con quella della ricostruita armonia della natura intorno all’uomo e a Dio: «Mi chiamerai: Marito mio, non più: Padrone... Farò un’alleanza con le bestie della terra. Io risponderò al cielo, il cielo alla terra,la terra risponderà con grano, olio e vino, e questi risponderanno ad Israele» (2,18-23). Ma è il Cantico che celebra ogni coppia di veri amanti come protagonista e simbolo di questa eroica impresa di riconciliazione.

Se confrontiamo lo sviluppo del dialogo uomo-donna in Genesi 2-3 e nel Cantico, ci accorgiamo che là si corre verso la rottura e il precipizio, qua verso l’incontro e la ricomposizione. 

Nel racconto Jahvista della creazione, infatti, al canto dell’uomo per l’incontro con la donna «Questa è carne della mia carne» (2,23), non segue la risposta della donna. Inoltre almeno un albero del giardino e uno dei suoi animali stanno lì non per unire, ma per dividere e alla fine la nudità e la sessualità sono connotate dalla vergogna (3,10). Non c’è da stupirsi se il giardino è perduto, se il rapporto con il creato si colora di sofferenza, fatica e morte (3,17-19), e se la donna è così sottomessa all’uomo: «Il tuo desiderio sarà verso tuo mariro, ma egli ti dominerà» (3,16).

Nel Cantico, invece, all’iniziativa della donna segue quella dell’uomo. È lei che dice la prima parola, che è un panegirico di lui e del loro amore, ma è lui che risponde con altrettanta passione, così che i due agiscono in pieno accordo e totale parità, cercandosi a vicenda e a vicenda lodandosi. Sono l’uno dell’altro. Si chiamano «amato mio», «mia amata», amico, amica e la donna rovescia la maledizione antica in una sorta di reciproca benedizione: «Io sono del mio amato e il suo desiderio è verso di me» (7,1). Perfetta sintesi di reciprocità, compiuta ricostituzione della parola creatrice: «A immagine di Dio lo creò, / maschio e femmina li creò» (Gn 1,17).

Ecco perchè l’autore del poema l’ha voluto concludere con questa esaltazione del potere deterrente dell’amore nei confronti della morte. Esaltazione che contiene anche l’unico e indiretto riferimento del Cantico alla Legge, da porsi come sigillo sul cuore e sul braccio (Dt 11,18), e a Dio:

«Mettimi come un sigillo sul tuo cuore,
come un sigillo sul tuo braccio,
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come gli inferi la passione:
le sue vampate sono vampe di fuoco,
una fiamma del Signore» (8,6).

Davvero, come dice Ceronetti, la lettura erotica del Cantico è la più piena e sicura, ma molto s’impoverisce se il letto degli amori non è rischiarato da una piccola lampada che getti un barlume di luce, attraverso quei trasporti amorosi, sul Nascosto.

Aldo Bodrato


 
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