TERZO VERTICE DELLA TERRA A JOHANNESBURG
Poche nuove, cattive nuove

Pare innegabile che l’esito del terzo consulto mondiale sulla salute del pianeta (dopo quelli di Stoccolma, 1972, e Rio, 1992), abbia largamente deluso. La sostanza appare questa: di fronte alla constatazione che dopo Rio la situazione ha continuato a peggiorare sotto vari aspetti, la cosiddetta «ecodiplomazia» (cioè i governi quando vestono panni di ambientalisti) ha deciso non di accrescere gli sforzi bensì di ridurre o al più di confermare gli impegni presi, ma non accettando alcun meccanismo di controllo sul rispetto di essi. In particolare su due temi su cui a Rio erano state sottoscritte due convenzioni giuridicamente vincolanti: la biodiversità biologica e il clima. Circa la prima, se già in una conferenza di sei mesi fa i paesi ricchi si erano accontentati di puntare a «dimezzare il ritmo dell’estinzione» delle specie entro il 2010, a Johannesburg ci si è rassegnati a parlare solo di riduzione di tale ritmo.

Il clima, questione cruciale a causa del global warming, il riscaldamento del pianeta, provocato dai crescenti consumi di energie fossili e conseguente emissione di «gas serra»: l’opposizione 
degli Usa (i maggiori responsabili di tali emissioni), spalleggiati da paesi produttori di petrolio e Giappone, ha impedito un accordo sull’incremento delle energie rinnovabili «pulite». Per fortuna, a parziale compenso di questo insuccesso, Russia e Cina hanno annunciato che aderiranno al Protocollo di Kyoto (1997), che impegna gli stati firmatari a una, peraltro modesta, riduzione delle emissioni entro il 2012.

Il resto degli accordi sono intese di basso profilo riguardanti limitazioni alla pesca e il contenimento nell’uso di sostanze chimiche inquinanti. Neanche in tema di rapporti Nord/Sud del mondo, strettamente connessi alle problematiche ambientali, sono state prese decisioni particolarmente incisive. I paesi meno avanzati (Pma) hanno un enorme bisogno di aiuti per conciliare esigenze di sviluppo e tutela del proprio ambiente (il rispetto del quale è nel nostro stesso interesse, facendo noi tutti parte di un unico ecosistema globale), e in particolare di avere libero accesso per i loro prodotti agricoli sui mercati dei paesi industrializzati. Ma questi ultimi hanno preso impegni vaghi e dilazionati circa la riduzione delle barriere commerciali, innalzate a protezione delle proprie agricolture, e in materia di aiuti in sostanza hanno riconfermato l’impegno preso a Rio, e disatteso, di portare allo 0,7% dei rispettivi Pil l’entità degli aiuti ai Pma; ma solo nell’arco di 10 anni.

In questo sommario resoconto i governi dei paesi ricchi, in primis quello Usa, ci stanno nella parte dei vilains de la pièce, i cattivi della vicenda. Ora, pur ribadendo le loro indubbie responsabilità nel dramma ambientale, sarebbe ingiusto tacere quelle di altri «correi». Sorvolando, per mancanza di spazio, sull’influenza negativa esercitata sulle decisioni dei governi dalle grandi multinazionali dell’energia e dell’agricoltura e sulle responsabilità di non pochi governi corrotti dei Pma, è nella direzione delle società cosiddette affluenti (cioè di noi stessi) che dobbiamo indirizzare lo sguardo.

Il fatto è che c’è una sorta di complicità non detta tra élites e vaste masse del mondo ricco che tiene le une e le altre abbarbicate a un modello di vita e di consumi che, oltre a tradursi in cattiva qualità della vita per gran parte della generazione attuale, reca in sé gravi minacce per l’ecosistema globale, quindi per tutte intere le generazioni future. Se non si incrina questo «blocco sociale» planetario, se le maggioranze benestanti del Nord del mondo non capiranno fino in fondo che, come scrisse Hans Jonas, «l’intera biosfera è stata aggiunta al novero delle cose di cui dobbiamo essere responsabili, in quanto su di essa abbiamo potere» grazie alla tecnica, comportandosi di conseguenza, ci sarà poco da aspettarci da accordi di vertice. E tutte le critiche rivolte all’«eco-diplomazia» appariranno come varianti più o meno sofisticate della vecchia invettiva popolare: «Piove, governo ladro».

Giuliano Martignetti


 
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