CINEMA
11 sguardi sull'11 settembre

Un uomo striscia a terra come un serpente, mangia senza usare le mani, morde il braccio della madre che lo nutre, mangia un topo vivo. Ha fatto la guerra da soldato e si è ridotto così. Dell’11 settembre 2001 il regista giapponese Shohei Imamura non parla affatto, ma lancia una tacita accusa a chi ne fa motivo di guerra, mostrando gli effetti della guerra sull’uomo: diventa un mostro ex-umano. La violenza, di setta o di stato, è anche violenza su di sé. Più che una critica, qui c’è un serio avvertimento agli Usa: la guerra non vi salverà.

Il film collettivo 11 settembre 2001 è opera di undici registi di undici paesi, che presentano undici episodi diversi. Ken Loach, inglese, mette in evidenza l’“altro” 11 settembre, quello del 1973, enormemente più cruento: il golpe cileno contro Allende, voluto e fomentato dagli Stati Uniti. 

Il regista egiziano Youssef Chahine unisce la pietà per le vittime patite dagli Stati Uniti con la pietà per le vittime fatte dagli Stati Uniti. Solo la pietà intera è vera, solo la pietà sincera, non quella utile a scatenare vendette a scopo di conquista.

Ma il più fortemente critico dell’uso ufficiale del crimine delle Due Torri è proprio il regista statunitense, Sean Penn, che ne è anche un delicato dissacratore. All’ombra (letteralmente) del dramma generale, c’è il dolore privato di un uomo: la caduta delle torri restituisce la luce alla sua povera finestra. Il dramma del grande sistema può essere un sollievo per un misero piccolo uomo. Cioè: la tragedia sbandierata dal potere non è tutto. Simile a questa è la storia raccontata da Claude Lelouch, francese: la tragedia pubblica ridà vita a un amore privato in pericolo.

Da parte del messicano Alejandro Gonzalez Inarritu c’è anche, in poche secche immagini, le più tragiche, avvolte nel buio, l’avviso al fanatismo religioso: «La luce di Dio ci guida o ci acceca?». Vale per ogni fanatismo, anche politico e nazionale, che si vesta di assoluto, e per ogni fondamentalismo dogmatico, come quello economico.

Nell’insieme, gli undici episodi – ambientati anche in Afghanistan tra i bambini, in Africa tra i ragazzi, in Israele (che grida: anche noi soffriamo attentati!), in Bosnia (dove si osa ricordare, proprio quel giorno, un altro tragico 11 del mese, quello di Srebrenica), e tra i musulmani indiani negli Usa, sospettati – dicono forte: non c’è solo la lettura unica della tragedia di New York data da Bush, ci sono anche tanti altri punti di vista e altri modi di vedere cause e significati di quell’evento. I registi di questo film dimostrano che il mondo può finalmente scuotersi dalla paralisi e dall’ipnosi imposta dalla interpretazione sovrana di quel crimine come atto di lesa maestà, può sottrarsi al pensiero unico per cui quello è l’unico grande male, può contestare il cinico utilizzo del terrorismo che la potenza Usa fa per ultraimporsi sul mondo. La libertà del pensiero e dell’arte attacca la prepotenza in modo onesto e con una forza più grande ed efficace del terrorismo, utilissimo (se non gradito) ai prepotenti per rafforzarsi. 

Enrico Peyretti


 
[ Indice] [ Sommario] [ Archivio] [ Pagina principale ]