IL CROCEFISSO E LA LEGA
A ciascuno la sua croce

Abbiamo sempre affrontato la questione dell’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche e negli uffici pubblici come un problema di facciata e di propaganda. Ma ora che la Lega e qualche ministro berlusconiano, in odio all’immigrazione islamica e in mancanza di visibili risultati politici, l’hanno rilanciata alla grande in nome della difesa dell’identità nazionale e delle radici culturali dell’Occidente, riteniamo giusto ritornarci con poche ma puntuali riflessioni.

Dice Baget Bozzo, il portavoce teologicamente più avvertito di questo strisciante ritorno alla religione di stato: «Il crocefisso è simbolo della nostra identità storica. La civiltà si nutre di simboli e in un tempo in cui quelli nazionali non sono abbastanza forti, il crocefisso li supera tutti per la sua portata universale... Cristo non è solo una figura sacrale, ma civile e storica. Il cristianesimo esprime valori di civiltà. La croce non stava forse sulle navi che combattevano l’islam? In questo momento dobbiamo affermare la nostra identità occidentale ed è urgente farlo di fronte alla sfida islamica... E si badi bene che io approvo l’esposizione del crocefisso come simbolo civile, non come segno confessionale» («Repubblica» del 21-9-2002).

Ritorno a Lepanto.

È chiaro, per Baget Bozzo e soci il crocefisso è solo per modo di dire un «simbolo universale» e per accidente «un simbolo religioso»; nella sua vera sostanza è la storica bandiera di un’identità nazionale, di una civiltà particolare, costituitasi non come capacità di apertura, ma come strumento di chiusura e di guerra nei confronti di ogni altra civiltà. Il crocefisso è per essi un simbolo mondano, integralmente secolarizzato. Non ha nulla in comune con la croce evangelica, mentre si identifica totalmente col labaro costantiniano e col vessillo crociato.

Nulla di nuovo. In fondo è stato così sempre per l’uso pubblico, civile e militare della croce. Ciò che è nuovo è la spregiudicata presa di coscienza che così è ed è bene che sia: l’abbandono dell’illusione confessionale di una società religiosamente ispirata e la scelta di una società laica che usa il suo passato cristiano come mezzo di offesa e di difesa.

Bisogna prenderne atto. Lo stato laico non può più nascondere le proprie insufficienze etiche ed umane dietro il paravento di simboli religiosi; la chiesa non può più illudersi che il marchio confessionale impresso per legge sui luoghi pubblici della società civile sia segno e garanzia della sua vitalità storica. Ogni operazione tesa a rilanciare tale ambigua confusione di ruoli svela subito il suo carattere strumentale e propagandistico.

Non per nulla gli ultimi a sperimentare questo puntellarsi tra zoppi furono un potere politico antidemocratico come il fascismo e una gerarchia autoritaria e chiusa su se stessa come la chiesa preconciliare. Il risultato tutti lo conosciamo, la catastrofe dello stato e l’inaridimento nella chiesa di ogni residua forza spirituale, la necessità per l’uno e per l’altra di ripartire da capo.

Ci sembra dunque estemporanea e del tutto fuori da ogni logica costruttiva l’idea che un simbolo, svuotato del suo significato originario da secoli di vampirizzazione politico-militare, possa servire a rilanciare l’identità etnico-culturale di qualsivoglia comunità civile. A stento riescono a riconoscersi in esso i credenti, quando lo vedono appeso nelle loro chiese. Perché mai dovrebbero riconoscervisi quei non-credenti che lo rivendicano come proprio solo in termini negativi, vale a dire come simbolo rifiutato da coloro che essi rifiutano?

Ne è un segno la superficialità con cui costoro parlano del crocefisso come «simbolo della propria identità storico-culturale». Non sprecano una parola per indicare quale senso veicoli tale simbolo. In che relazione stia con esso la propria identità padana od occidental-capitalistica.

Un simbolo che unisce.

Evidentemente il significato teologico, etico o anche solo esistenziale dell’uomo vittima di ingiustizia, di Gesù il Cristo appeso al patibolo degli schiavi ribelli, del Verbo di Dio sottomesso al dolore e alla morte, non li tocca e non li riguarda. Ciò che loro interessa è lo stemma crociato, l’insegna anti-maomettana di Lepanto, e al limite l’in hoc signo vinces di Costantino.

A noi invece, che credenti e non-credenti dal crocefisso ci sentiamo più interpellati che rappresentati, preme in questa occasione suggerire tre linee di riflessione.

Innanzitutto sarebbe bene per i cristiani riprendere in approfondito esame quel che per essi significa questo simbolo. In risposta al tentativo leghista di usarlo aggressivamente contro gli immigrati e a quello forzista di strumentalizzarlo a sostegno della propria politica, molti credenti hanno ricordato il carattere universale del Cristo in croce, morto per unire e non per separare gli uomini, ucciso dal potere politico e dunque vittima e non puntello dell’ordine costituito. Giusto. Ma noi pensiamo che, se a partire dal VI secolo il cristianesimo ha iniziato a valersi della croce come segno forte della propria identità di fede, essa non lo abbia fatto nell’ottica della sconfitta, tipica di Marco e di Matteo, e ancor meno in quella paolina della kénosi (autoumiliazione), ma in quella della vittoria, tipica di Giovanni, che vede nell’innalzamento in croce l’inizio del trionfo di Gesù. Certo non trionfo mondano di potere e di successo, ma trionfo escatologico di donazione e di amore, già presente e attivo come forza di trasformazione della storia.

In secondo luogo, la pretesa di rilanciare il crocefisso come simbolo storico, culturale e sociale, espressa nella forma brutale e semplicistica che abbiamo visto usare da politici e persino da uomini di cultura e da teologi di un certo grido, la dice lunga sulla scarsissima conoscenza che il mondo laico e persino religioso italiano ha del fenomeno religioso, cristiano, in primo luogo, e mondiale poi. Una migliore conoscenza del cristianesimo nelle sue varie sfaccettature, dell’ebraismo, dell’islam e delle altre forme di religiosità sarebbe auspicabile e sarebbe bene che in qualche modo fosse sostenuta da un’appropriata preparazione scolastica non confessionale.

Infine, ci pare doveroso osservare che la storia passata e recente (vedi anche il discusso film Magdalene e l’uso della legge coranica negli stati islamici integralisti) insegna che ogni volta che religione e politica, potere civile e potere religioso si identificano, la prima vittima è la libertà, seguita a ruota dall’equità e dalla giustizia, dal senso della misura, dal riconoscimento del limite invalicabile della dignità umana, dal rispetto della persona. L’apertura religiosa autentica, che è sempre apertura al Trascendente e quindi all’alterità, alla diversità, all’universalità senza confini, si trasforma in questo caso nel suo contrario. In nome del possesso dell’assoluto diventa demoniaca chiusura sull’esistente, sacralizzazione del potere e della morale corrente, legittimazione dell’oppressione più violenta e spregiudicata. Venendo a mancare la dialettica tra le due forze socialmente più incisive, quella politica del potere e quella spirituale delle fedi, viene a mancare il loro reciproco controllo, lo stato-chiesa si fa Dio e tutto diventa allora possibile, ben più e ben peggio che se Dio non esistesse.

La laicizzazione come compito.

Se ci è poi consentito buttare lo sguardo oltre le contingenze della polemica e suggerire a tutti qualche meta e qualche compito, riteniamo doveroso far presente agli amici delle comunità islamiche italiane che non è opportuno che essi, richiamandosi alla diversità del proprio sentire religioso, facciano dichiarazioni contrarie all’uso di appendere i crocefissi nei luoghi pubblici.

Altra è la strada da seguire per essi e per tutte le minoranze religiose che soffrono come un’imposizione illecita ed emarginante la presenza di simboli cattolici nelle scuole e negli uffici dello stato. Possono e devono collegarsi tra loro, trovare accordo coi laici e coi cattolici non integralisti per rivendicare insieme, in quanto cittadini, la laicità dello stato e la sua neutralità in tutto ciò che riguarda scelte personali o comunitarie di fede.

Parlare e agire contro l’uso profano del crocefisso, in nome della fede, spetta invece, nella già “cattolicissima” Italia, in primo luogo ai cattolici, che in esso vedono un simbolo forte del proprio credo, ed è male che non lo facciano con sufficiente chiarezza e determinazione. Agli islamici, agli ebrei, agli induisti, ai buddisti, ai protestanti e persino ai laici agnostici o atei, in quanto portatori di specifiche convinzioni religiose o filosofiche, spetta denunciare e combattere la confusione tra religione, ideologia e potere statale, là dove essi sono maggioranza. Si tratti degli stati islamici o di Israele, dell’India o degli Usa, dei regimi già comunisti o di quelli in cui trionfa l’economicismo più puro.

Ciascuno ha il suo stato da difendere dalle ingerenze religiose e clericali e ciascuno la sua croce da sottrarre alla strumentalizzazione della politica e del potere e da ricollocare nei luoghi della fede, vale a dire là dove può davvero dare i suoi frutti migliori, quelli per cui ha preso e mantiene forma di simbolo.

Aldo Bodrato


 
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