OLTRE LA TRACOTANZA DEMOCRATICA |
Da Eschilo a Bush |
Sarà un caso, ma il primo anno del terzo millennio dell’era cristiana ha segnato una svolta epocale. Nel 2001 il genio visionario di Kubrick aveva collocato – sin dal mitico ’68 – il sogno di una palingenesi dell’uomo. La medesima data ci ha drammaticamente presentato, come scrive Terzani nell’apertura delle Lettere contro la guerra, «l’occasione per reinventare il futuro». Un’occasione che stiamo perdendo. La reazione all’11 settembre è stata la guerra. E non soltanto la “risposta” bellica. Si è teorizzata la guerra preventiva. Non c’è stato il coraggio di una riflessione che sapesse essere anche critica e autocritica. Facciamo ciò che i kamikaze intendevano farci fare; e ne sposiamo la logica. Niente cambiamenti, né mediazioni: la nostra unica e cieca fede è nelle armi. Tacciono i profeti, e tacciono anche i diplomatici: la superpotenza rifiuta gli accordi di Kyoto, il bando delle mine antiuomo e (soprattutto) il Tribunale Penale Internazionale, mentre stanzia 200 miliardi di dollari per la guerra in Iraq. Due sentimenti s’impongono: «la rabbia e l’orgoglio», per riprendere un titolo che ha dominato per sei mesi le classifiche dei libri. Eppure la rabbia, l’orgoglio, la guerra preventiva (e permanente) sono indizi sempre più evidenti di una crescente debolezza, di una paralizzante paura. L’occidente è impero, ma è anche cittadella assediata. E la sua stessa schiacciante supremazia ne moltiplica i nemici. Di fronte a questa deriva, ritornano alla mente alcuni testi che stanno alle fondamenta della nostra cultura. E la lunga ombra dell’antico investe, forse, gli scenari della globalità postmoderna. Com’è noto, gli autori greci parlavano di una ubris – tracotanza – che s’impadronisce talora degli uomini più potenti e in certo qual modo li acceca, inducendoli a smarrire la consapevolezza del loro limite, a eguagliarsi al divino in un delirio d’onnipotenza e a precipitare – per questa via – in una catastrofica rovina. Il più antico dei tragediografi, Eschilo, rileggeva in questa chiave, sin dal 472 a.C., la sconfitta di Serse, imperatore dei Persiani, e del suo “folle orgoglio”; e il primo degli storiografi greci, Erodoto, applicava il medesimo schema alla vicenda di Creso: «la divinità si rifiuta a chi vuol farsi uguale a lei, e ne turba i progetti». D’altronde, non diversamente il Signore della Genesi «confondeva» i costruttori della torre di Babele, fieri della loro superiorità tecnica (l’uso del mattone e del bitume). Qualcuno, ragionevolmente affezionato a una lettura materialistica della storia, obietterà scherzosamente che in Bush «più che l’orgoglio poté il petrolio»: e indubbiamente il calcolo economico interviene non poco in certe scelte. Ma non sottovaluterei la dimensione culturale e “religiosa” di questo esercizio della forza. Ne è una spia – quasi una sorta di “lapsus” – la denominazione inizialmente assegnata all’intervento militare in Afghanistan, “Giustizia infinita”, formula che usurpando un caratteristico attributo divino svela una concezione idolatrica del potere. Sorvolo, poi, su qualche altra remota (o inquietante?) corrispondenza tra l’attualità e l’antico: rintracciabile non solo tra la torre di Babele e le Twin Towers, o tra New York e Babele/Babilonia (oggi territorio iracheno), ma anche nella tragica centralità della “Terrasanta” e nel lungo assedio di Betlemme, o nella non meno emblematica distruzione dei Budda millenari durante la primavera del 2001. Mi domando, piuttosto, che cosa dovremmo fare qualora ci trovassimo in presenza di un nuovo caso di ubris (non più attribuibile a un solitario monarca, ma democraticamente condivisa dalla grancassa dei massmedia ). Attendere che i potenti di turno vadano in rovina? Non mi pare sensato, in quanto il crollo violento di un impero travolge moltitudini di innocenti (o semi-innocenti) e a volte i deboli ne pagano il prezzo più alto. Condannare e isolare gli Usa? La critica è sicuramente necessaria, in quanto va detto con chiarezza che ci stiamo ponendo su una china pericolosissima e senza ritorno; va invece evitato l’isolamento e tutto ciò che può alimentare un sentimento di paura: sicché va mantenuto e sviluppato il dialogo con settori della società statunitense; e la lotta legale al terrorismo resta comunque doverosa non soltanto perché esso semina morte, ma perché è il miglior servizio reso ai signori della guerra dai soliti “utili idioti”. Ma di là da questo – e dall’urgenza di una rinnovata politica di pace e di “nonviolenza (davvero) preventiva” – una domanda s’impone: se l’uomo d’oggi rimane, come direbbe Quasimodo, «quello della pietra e della fionda», e siede sul trono un alunno di Serse e di Creso, possiamo limitarci a ripetere che “un mondo diverso è possibile”, o ad accusare il profitto economico, senza una più profonda riconsiderazione dell’“ego”, cui ci esortano le fedi dell’oriente e dell’occidente, oltre alla lungimiranza di Schopenhauer? Forse, come scriveva il filosofo indiano Aurobindo perseguendo attraverso lo yoga un’evoluzione “supermentale” della coscienza, «l’uomo non deve diventare migliore: deve diventare un altro». Forse, come insegna Teilhard de Chardin, siamo chiamati a un’ulteriore conversione all’Uno e al senso unitivo della specie, nella prospettiva eco-spirituale («sentire, amare e pensare come Terra») indicata da Boff. E forse, come laicamente suggeriva Freud nelle lettere ad Einstein sulla guerra, occorre in ogni forma incrementare le “relazioni d’amore” e “d’identificazione”, antidoti efficaci all’istinto di distruzione e di morte. Sono percorsi di lungo periodo, che possiamo appena intraprendere. Non sostituiscono ma affiancano il quotidiano impegno politico. Ma dopo l’11 settembre diventano, mi pare, più che mai decisivi. Giovanni Pagliero |